Solidarietà al P.C.A.

Ringraziamo il comitato Sanità pubblica per la solidarietà e l’attenzione che ci hanno manifestato stamani (e non solo)con il presidio.
Circa 700 volantini sono stati distribuiti, molti cittadini si sono fermati per chiedere maggiori informazioni. 
Una nota che vale la pena segnalare, alcuni cittadini che usufruiscono del Mangi chi ha fame, stamani erano presenti al presidio, segno che qualcuno inizia a mobilitarsi.
A scanso di equivoci, informiamo che la Regione ha saldato il finanziamento regionale (si aspettava da circa 6 mesi), di 30mila euro, che serviranno a ripianare vecchi debiti tra cui tre mesi di stipendi arretrati.
Una struttura vecchia, con attrezzature obsolete, che hanno bisogno di essere aggiornate, sopratutto perchè ci sono dati sensibili che vanno assolutamente protetti.
Inoltre, con queste modalità, abbiamo difficoltà a reperire specialisti che vengono a lavorare nel nostro servizio.
Noi siamo rimasti alla Croce Verde, dove l’allora candidato, oggi Sindaco Alberto Giovannetti sottoscrisse un programma di intervento per il PCA, non solo, l’assessore Elisa Bartoli ha più volte dichiarato che i locali non sono idonei e che avrebbe provveduto a spostarci da Via S. Stagi.
Insomma sono stati presi impegni, l’assessore piu’ volte avvertita delle criticità, ci ha riferito che avrebbe provato la strada per far partecipare alla spesa i comuni limitrofi, strada già percorsa da noi, ma senza risultati. Quindi? 
Ad oggi siamo andati avanti anche per un senso di responsabilità verso la struttura, ma sopratutto per impegni che abbiamo (misure alternative al carcere, minori, ecc ecc) ma se non avremo rassicurazioni siamo pronti ad autosospenderci dal servizio.
Del resto basterebbe essere chiari: se rispetto ai costi non ci sono benefici, che si chiuda pure questa esperienza, vedremo poi le ricadute sul territorio.
Ovvio, noi auspichiamo che tutto si risolva e che si possa lavorare con questa amministrazione, sui temi sociali, così come abbiamo fatto, con la ex Assessora Lora Anita Santini.
Il Video

PCA&INFORMAZIONE

Stamani si sono concluse come da programma le due giornate presso l’istituto Professionale alberghiero G. Marconi di Seravezza. Alla presenza di circa 70 alunni, 4 classi che sono state suddivise nei due giorni. Abbiamo affrontato alcuni temi tra cui le dipendenze, spiegando il pericolo delle droghe, soprattutto come funzionano e quali danni producono nel tempo al cervello. L’uso e l’abuso.
Altro argomento le famiglie che spesso non hanno gli strumenti e le informazioni giuste per affrontare il problema.
Nel primo giorno è stato proiettato un docu film del regista Antonello Branca, (Antonio e Filomena)dove si racconta la storia, le difficoltà di 2 giovani tossicodipendenti negli anni 70. Purtroppo ad oggi poco è cambiato, l’attenzione a questi temi è pressoché inesistente.
A seguire il dibattito moderato da Valentina Torri e Nando Melillo
La seconda giornata è stata dedicata alla prevenzione, soprattutto sui pericoli dell’Aids, lo scambio di siringhe, l’uso del preservativo, il pericolo dei rapporti occasionali, condotto da M. Cristina Tognetti dell’Anlaids.
Alla fine sono stati distribuiti preservativi ai presenti.
Non ultimo, il tema sanità pubblica e i servizi come il PCA che ad oggi sono a rischio per mancanza di risorse. 
Tuttavia non ci arrendiamo, nonostante le difficoltà oggettive continuiamo con il nostro programma sulla prevenzione.

Segnaliamo che Giovedì 28, il comitato sanità contro il depotenziamento dell’ospedale Versilia sarà al mercato per informare i cittadini sulla situazione cure e dipendenze al PCA.

– 2018 –

Come è consuetudine alla fine dell’anno mettiamo alla vostra attenzione una breve relazione del nostro servizio. Rispetto allo scorso anno non ci sono novità di rilievo nelle attività giornaliere, l’unica news è il ritorno dell’eroina nel mercato dello spaccio minuto.

Purtroppo la grave situazione in Afghanistan ha sicuramente favorito il mercato dell’oppio, che arriva nelle piazze delle nostre città a prezzi veramente bassi, si parla di 5 euro per una dose! Nel tempo è cambiata la modalità di acquisto e soprattutto di consumo, i tossicodipendenti tendono sempre più a fumarla, sniffarla,  ma non mancano quelli che ancora preferiscono iniettarla, anche se dal punto di vista della dipendenza non cambia niente. La presenza degli utenti del PCA più o meno si attesta sui 160 unità, solo l’estate tende ad aumentare.
Il dato più importante rimane quello sommerso, si tratta di persone coinvolte nel consumo è sconosciute ai servizi che per vari motivi ne sono lontani, pensando di risolvere il problema tra le mura di casa.
Rileviamo un aumento di persone segnalate alla prefettura per consumo e acquisto di stupefacenti.

Per quanto riguarda la nostra utenza (Versilia nord) la cocaina rimane al primo posto, spesso insieme all’alcol e bdz, purtroppo, nonostante i nostri appelli, ci sono ancora medici compiacenti che continuano a prescrivere psicofarmaci senza controllo. A fronte di questo la strategia del PCA non può che essere la riduzione del danno, informazione e la prevenzione. Per quanto riguarda le attività sociali, nella fattispecie svolti la mattina. Sono stati analizzati circa 1000 esami per la ricerca di metaboliti, circa 500 colloqui motivazionali, tra cui 50 contatti telefonici, va anche detto che per continuare queste pratiche ci vogliono risorse economiche, che sempre più nel tempo si sono assottigliate. Va ricordato che per far aderire un utente ad un programma non è cosa semplice, in particolare quando si tratta di cocaina. Vale la pena ricordare il progetto “Mangi chi ha fame” attualmente con sede abusiva al mercato coperto, che nel corso dell’anno ha distribuito numerosi pacchi spesa, in collaborazione con Utenti e cittadini comuni. Inoltre nel corso dell’anno è stato allestito presso il mercato coperto una distribuzione di abiti usati.

Presso la nostra sede sono a disposizione preservativi (in collaborazione con Anlaids) e siringhe nuove, ne abbiamo distribuite circa 100.

Quest’anno abbiamo affrontato anche il tema della Ludopatia, purtroppo le presenze allo sportello sono state veramente poche e difficili, anche perché la dipendenza dal gioco non è ancora vissuta come un problema.

Sul piano politico, a livello nazionale è sparita la conferenza nazionale sulle tossicodipendenze, la quale metteva a confronto tutti gli operatori del settore. In Italia manca, una struttura di allerta sostanze, che in caso di overdose, si possa analizzare la sostanza trovata per ricercare eventuali tagli mortali.

A livello locale invece la situazione è rimasta invariata, la nuova amministrazione che si è insediata per adesso non ha dato seguito al suo programma di mandato rispetto alla dipendenze.

Il PCA versa sempre in una situazione finanziaria precaria, ma anche strutturale, fu proprio il vice Sindaco  Elisa Bartoli che all’indomani di una sua visita ebbe a dichiarare che la sede non è adatta.
La ASL nonostante da un anno ha annunciato una manifestazione di interesse per questo servizio, va avanti a forza di proroghe con le stesse condizioni economiche che per il servizio non bastano, tanto che aspettiamo il finanziamento dalla regione che tarda ad arrivare.
si rischia l’implosione (ndr)

Tuttavia rimaniamo fiduciosi che la situazione si risolva quanto prima, cogliamo l’occasione per fare gli auguri all’amministrazione comunale .

http://www.sims.it

servizio di rete Versilia 

IL PCA : CONOSCERE LA STORIA

Come e perché è nato il Progetto Comunità Aperta (PCA)

Una storia conosciuta pone chiunque in grado di valutare meglio, di compiere scelte più coerenti e, in definitiva, migliori. Per questo chiedo ai destinatari la pazienza di scorrere questo messaggio che, nonostante lo sforzo di sintesi, non può essere brevissimo.
In principio in Versilia, quando già i primi tossicodipendenti iniziarono a creare problemi fra la gente ed a chiedere soccorso agli ospedali ed ai medici, non c’era niente. Fummo proprio noi, un gruppo di volontari organizzati come ACM (Associazione di Controinformazione Medica), a reclamare ed ottenere i primi servizi strutturati. Correva l’anno 1977. Dopo alcuni scontri sfociati anche in vicende giudiziarie, a Pietrasanta nacque il primo centro versiliese di assistenza ai tossicodipendenti in attuazione di quanto disposto dalla allora del tutto inapplicata legge 685/1975. Fu messa a disposizione una stanzetta all’Ospedale Lucchesi e ci assegnarono un medico ed un’infermiera. Così cominciammo a lavorare fra mille difficoltà e fatti spesso segno della disapprovazioni di molti. A Viareggio, salvo un medico di famiglia che si era messo a prescrivere morfina, non c’era ancora niente, ma quel medico non ne poteva più. Era talmente assediato dai tossicodipendenti tanto che era arrivato a consegnare le ricette sulla canna del fucile!
Quando il servizio passò nel distretto, vi furono assegnati due medici a 12 ore settimanali ciascuno, e un’infermiera. Tutto il resto era lavoro di volontariato. Nacque così “L’Esperienza di Pietrasanta” i cui risultati, indiscutibilmente promettenti, vennero pubblicati su diverse riviste scientifiche e sul bollettino del ministero della sanità. Perché? Semplicemente perché ci si era dotati di una direzione scientifica che ci aveva guidato nella ricerca dei materiali di riferimento. L’aveva assunta Alessandro Tagliamonte, allora Direttore del Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Cagliari, che aveva condiviso l’esperienza e si era offerto di presentare la nostra prima pubblicazione “Il Diavolo non Esiste” al centro culturale “Luigi Russo”. Quindi noi siamo stati i primi fondatori e conduttori del servizio pubblico di Pietrasanta. Di questa esperienza, basata sui materiali della scuola di Dole & Nyswander, giunse notizia negli Stati Uniti, e fu proprio la dottoressa Nyswander ad apprezzarla in modo particolare con una lettera nella quale esprimeva il suo autorevole compiacimento, ed invitò il nostro gruppo a frequentare gli istituti di ricerca più accreditati negli Stati Uniti, dove ormai ci rechiamo con frequente periodicità e da qualche anno organizziamo la sezione internazionale della conferenza dell’AATOD (American Association for the Treatment of Opioid Dependance).
Quando la regione istituì i servizi pubblici i dati furono falsati dal sociologo della USL Viareggina per fare in modo che in Versilia, anziché due servizi autonomi, ne nascesse uno solo sotto il controllo di Viareggio dove le pratiche di assistenza erano molto diverse da quelle del centro di Pietrasanta e dove gli operatori procedevano in modo discutibile e senza alcun riferimento ai materiali scientifici. Nacque così un problema, e gli operatori di Viareggio provocarono una vera e propria persecuzione contro quelli di Pietrasanta, denunciandone l’operato perfino alla magistratura. Il contrasto si acuì allorquando a Pietrasanta vennero accolti alcuni pazienti estromessi da Viareggio e lasciati senza assistenza ad arrangiarsi per la strada. La dottoressa Fosca Re ebbe a subire una denuncia e soltanto dopo due anni fu prosciolta in istruttoria. Ma erano gli operatori di Viareggio che dialogavano con la regione, ed alla regione non c’erano allora le informazioni scientifiche oggi disponibili. Non era ancora riconosciuto il concetto di tossicodipendenza come evento patologico per i più cronico e recidivante. C’era soltanto un’impostazione ideologica veicolata da un gruppo di pseudo esperti per la quale si doveva soltanto alleviare la sindrome di astinenza con quantità di farmaco contenute, effettuare una sottrazione della terapia e poi procedere con interventi non medici. Circa alla metà degli anni ottanta, su espressa denuncia degli operatori viareggini, la regione minacciò noi e i nostri medici di vera e propria criminalizzazione se questi non avessero contenuto le dosi del metadone entro i 30 mg. e non le avessero ridotte con i ben noti scalaggi programmati. Tutte queste vicende possono essere descritte con tanto di nomi e cognomi dei protagonisti, anche se non ne vale la pena e non aggiungerebbe niente al succo della questione che ci interessa.
Fummo così costretti ad abbandonare quel centro che avevamo fondato, reclamato dalle istituzioni e condotto per molti anni con tanta passione e con tanto successo. Un successo che non era stato digerito da chi trattava i pazienti in ben altro modo ed intendeva legittimarsi in quelle pratiche che, oggi non ci sono dubbi, sono ben riconosciute come inefficaci, pericolose e oltretutto, illegittime. Le descriviamo sommariamente. Si accoglievano i pazienti dopo attese di settimane o mesi. Si somministrava loro pochissimo farmaco a scalare, così che questi continuavano gli abusi. Alla terza urina positiva i pazienti venivano cacciati e non potevano ripresentarsi che dopo tre mesi. E guai se avessero insistito per entrare prima o protestato! Nelle lettere di dimissione forzata, che ancora conserviamo nei nostri archivi, era contenuta un’esplicita minaccia di denuncia penale a chiunque avesse insistito per rientrare. In definitiva, venivano estromessi dalle cure proprio gli individui più bisognosi e più malati. Questa fu la politica introdotta anche a Pietrasanta dopo che i medici viareggini ne assunsero il controllo. Noi tornammo alla nostra attività di unità di strada ad assistere, del tutto impotenti, alla tragedia che si produsse. Pazienti stabilizzati e socialmente integrati tornarono in massa agli abusi. Alcuni morirono di overdose. Altri contrassero l’AIDS. Altri ancora furono incarcerati. Ci muovemmo insieme ad altre associazioni del territorio, ma le nostre proteste non furono ascoltate. Pietrasanta, in molti lo ricordano ancora, era diventata un centro di smistamento e di spaccio della droga e i tossicodipendenti avevano colonizzato diverse aree nei vari quartieri. La gente era letteralmente terrorizzata e spesso vittima di una criminalità diffusa e divenuta intollerabile. Lo scenario fu considerato con preoccupazione anche dalla amministrazione comunale che ammise, con ripetuti ordini del giorno, l’inadeguatezza del servizio pubblico e chiese all’autorità sanitaria di riconsiderare la politica in atto. Ma senza risultato. Fu così che la giunta comunale di allora incaricò il nostro gruppo e i suoi direttori scientifici, al momento Tagliamone dell’Università di Cagliari e Castrogiovanni dell’Università di Pisa, di elaborare un progetto di intervento che integrasse quello pubblico. La cosa era fattibile perché intanto un referendum, del quale eravamo stati fra i promotori, aveva annullato la norma per la quale i tossicodipendenti potevano ottenere assistenza medica soltanto nei presidi pubblici, e aveva restituito tale facoltà ad ogni esercente la professione medica. Il progetto prevedeva così la messa in funzione di medici universitari, per i quali era stato richiesto ed organizzato anche uno specifico dottorato di ricerca in tossicodipendenza. Si pensò che questi specialisti, inviati dall’università a fare tirocinio e ricerca presso il Gruppo SIMS, avrebbero potuto, in quanto medici, iniziare una attività di assistenza slegata dall’allora GOT. E così fu. Il progetto, denominato PCA (Progetto Comunità Aperta) fu inoltrato dall’amministrazione comunale di Pietrasanta, con l’adesione di altre cinque amministrazioni della Versilia, alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, fu approvato e finanziato. Ma avendo, requisito allora richiesto, valenza multizonale, ammise come partecipanti anche diversi soggetti provenienti da altre realtà.
E’ chiaro che per le enormi differenze di formazione e quindi di impostazione metodologica, il PCA fu vissuto male dagli operatori del GOT. Si ricorda che una volta, due medici in formazione al PCA si recarono al GOT per discutere un caso e furono letteralmente spintonati fuori dalla dottoressa del centro pubblico.
La situazione in Versilia, però, era talmente deteriorata che si imponeva un cambiamento nelle politiche inefficaci portate avanti dal GOT, che intanto assumeva il nome di CMAS. E il cambiamento iniziò piano piano allorquando al CMAS di Viareggio, già rinominato SERT, fu incaricata come responsabile la dottoressa Aurora Valicenti, ancora operante nella nostra Azienda USL, che vale la pena di nominare. La dottoressa Valicenti ebbe l’accortezza di volersi documentare. Si incontrò con i nostri operatori, richiese dei materiali, esaminò la letteratura disponibile ed iniziò, sebbene fra mille difficoltà ed opposizioni, il lento processo di trasformazione del servizio. Nel frattempo noi eravamo stati convocati in commissione al Ministero della Sanità ed avevamo collaborato alla stesura delle prime linee guida sui trattamenti sostitutivi in attuazione degli esiti del referendum del 1993, modificazioni sostanziali che nei SERT continuavano ad essere ignorate. Fu così emanata la ben conosciuta circolare ministeriale n. 20 del 1994, ancora in vigore.
Poi le cose andarono progressivamente migliorando e progressivamente miglioravano anche i rapporti del servizio pubblico con il PCA. Alcuni operatori pubblici cambiarono. Furono assunte nel servizio pubblico due dottoresse che avevano seguito il dottorato di ricerca all’Università di Pisa e che erano state in borsa di studio di formazione e tirocinio presso di noi per un intero anno. E le cose cambiarono. Si crearono le condizioni per i primi contatti. Per le prime azioni in collaborazione. E più il SERT, si trasformava nel senso indicato dalla letteratura scientifica e dalle analisi delle esperienze cliniche, e più si intrecciavano rapporti e collaborazioni. Momenti di formazione erano state anche le periodiche conferenze nazionali sulla clinica organizzate dal Gruppo SIMS insieme alla SITD (Società Italiana Tossicodipendenze) e che avevano visto i contributi dei migliori ricercatori e clinici del mondo.
Si fecero così i primi accordi, i primi protocolli di interazione ed i giovani del territorio vennero a disporre di interventi maggiormente articolati, di orari più dilatati e di operatori che lavoravano in continuo dialogo e confronto fra di loro. Il PCA era diventato ed è tutt’ora, una componente importante della rete di assistenza, un patrimonio di conoscenze e di operatività che ha letteralmente trasformato la realtà di Pietrasanta ed, in parte, tutte quelle nelle quali il Gruppo SIMS organizza, su richiesta, corsi di formazione e di aggiornamento. Di qui la sollecitazione dell’attuale amministrazione comunale all’Azienda USL di procedere verso la stipula di una vera e propria convenzione per la prosecuzione e lo sviluppo di servizi medici apprezzati e riconosciuti come efficaci, e ritenuti ormai irrinunciabili. E’ utile ricordare che il precedente Direttore Generale della Azienda USL, dottor Pallini, aveva ipotizzato la concentrazione del servizio pubblico in un’unica sede a Viareggio, possibile in seguito alla attivazione di servizi medici meglio strutturati al PCA ed alla conseguente interazione in rete delle due realtà (cosa che, attualmente, è stata realizzata). Oggi i presidi versiliesi, con le due sedi di Viareggio e di Pietrasanta, sono certamente dei migliori fra molti rispetto alle capacità di accoglienza, di ascolto e di intervento. Sarebbe interessante illustrare in una riunione allargata, anche in regione, tutte le tappe e i dettagli di queste progressive realizzazioni comuni. Purtroppo, questo non è avvenuto ovunque in Toscana. Alcuni servizi toscani, infatti, non dispongono neanche degli strumenti minimi per la cura di casi presenti in numero non trascurabile in una popolazione di pazienti. Alcuni di questi, non trovando adeguata assistenza nei loro servizi di residenza, sono approdati a Pietrasanta, luogo conosciuto anche attraverso la rete telematica, come capace di erogare servizi altrove indisponibili.
E la storia si ripete. Alcuni SERT toscani, è comprensibile, non gradiscono queste migrazioni, né gradiscono l’attività di consulenza che è di routine al PCA. Spesso ci si limita ad illustrare a chi ce lo chiede i diritti che la legge stabilisce per i tossicodipendenti che intendono curarsi e i principi basilari della clinica ormai riconosciuta valida in ogni sede scientifica qualificata. Questo può avere disturbato gli operatori dei servizi che non rispettano quei diritti e che non seguono le linee guida diramate sia dal ministero che dalle società scientifiche, fino al punto di relegare i loro pazienti ad un rapporto sclerotizzato del tipo “prendere o lasciare”. Di questo, e degli abusi in uso in alcune carceri sui detenuti tossicodipendenti, abbiamo recentemente discusso anche con l’assessore alla sanità della Regione Toscana, il quale ci ha ascoltato con interesse e promesso di affrontare il problema prossimamente in un apposito tavolo organizzato (che poi non ha affatto organizzato). Nel frattempo gli abbiamo lasciato un pro memoria, ed ancora aspettiamo di essere convocati.
Ciò può provocarci problemi. Qualcuno ci ha anche già consigliato di non procedere in questa azione avvertita come disturbo nei confronti di quei SERT dai quali i pazienti si allontanano con la comprensibile convinzione di salvaguardare la loro salute. Così noi, anche per il rispetto delle intese intervenute fra Comune ed Azienda ASL, stiamo intanto consigliando, anche se non li possiamo obbligare (art. 113, legge 309/90 che sancisce il diritto degli utenti di scelta dei medici e dei luoghi di cura), tutti i non residenti in Versilia di riferirsi ai loro servizi, ai loro medici ed alle farmacie di residenza. Ma ce li mandiamo informati. Fra i pazienti del PCA è nata anni fa ed è operante una associazione di auto aiuto, il DDT (Difesa dei Diritti dei Tossicodipendenti) che ha lo scopo di tutelare i diritti dei pazienti in cura. E’ un’azione doverosa, poiché anche le altre realtà dovrebbero organizzarsi per l’assistenza di questi pazienti che presentano problemi particolari. Questi, per parte loro, hanno il diritto di reclamare dalle loro autorità sanitarie interventi che siano efficaci, aderenti alle leggi, rispettosi della dignità e delle possibilità dei pazienti, come quelli che, con fatica ma con determinazione, sono stati organizzati in Versilia.
Dopo avere approfittato della Vostra pazienza in uno sforzo di sintesi che, pur avendo tralasciato molti e significativi episodi degni di essere rappresentati, non è riuscito meglio, avete ora maggiori informazioni sul ruolo svolto dalla nostra associazione, sull’impatto che i servizi medici del PCA, ormai attivi da oltre 16 anni, hanno avuto sul territorio, e quanto abbiano contribuito a migliorare gli standard di qualità dello stesso servizio pubblico. Si resta quindi a disposizione con i nostri operatori, i nostri medici e i nostri direttori scientifici, per eventuali, ulteriori ragguagli ed approfondimenti.

Pietrasanta, 1977
Rivisto ed aggiornato, settembre 2009

Gratta e perdi

a cura della Dott.ssa Francesca Alberti

Per azzardo si intende quel gioco in cui si investe denaro senza avere la possibilità di influire sul risultato, in poche parole ci si mette nelle mani del destino affidandogli la speranza che possa cambiare la vita in meglio. Complice la crisi economica che sta attraversando il nostro paese; in questo tragico contesto politico ed economico lo stato ha pensato bene di fare “cassa” inserendo in finanziaria i giochi regolamentati dallo stato, con una potente strategia di marketing utilizzando testimonial famosi nelle pubblicità che davano cosi l’illusione che giocando si potesse magari con un solo euro cambiare il proprio status sociale.

Slot machines, casinò online, ma soprattutto gratta e vinci con nomi cosi suggestivi, come Turista per sempre, Milionario, l’ eredità, Vivere alla grande, l’uno tira l’altro.  Tutti possono acquistarlo infatti si possono comodamente trovare in tutti i tabacchini, al supermercato alle poste, e addirittura nei distributori automatici. Slogan come ” ti piace vincere facile? Gratta e vinci ! Vinci spesso vinci adesso. Insomma non sarai così stupido da non voler tentare la fortuna. Ci si ammala cosi, magari con una piccola insignificante vincita , che attiva nel nostro cervello i circuiti della gratificazione proprio come le droghe ,  il cibo e il sesso. Molto spesso  i tossicodipendenti sono persone predisposte a questa dipendenza, infatti è sempre piu frequente che gli operatori dei servizi si ritrovano questi tipi di pazienti.

In base alle numerose evidenze neurobiologiche acquisite negli ultimi anni, nella nuova versione del DSM 5 il gioco d’ azzardo patologico GAP è stato classificato tra i disturbi addiction and related disordes. Con questa nuova classificazione il Gap assume anche per la comunità scientifica internazionale  lo status di dipendenza, e non più un disturbo del controllo degli impulsi come nel DSM 4. Il GAP è una forma di dipendenza in cui non è implicato un oggetto esterno, chimico, ma l’ oggetto della dipendenza è un comportamento o un attività lecita e socialmente incentivata. Secondo la Federazione italiana degli operatori dei dipartimenti e dei servizi delle dipendenze sono circa 800 mila le famiglie che convivono con un malato di gioco. La patologia definita nel linguaggio comune ludopatia, viene in genere diagnosticata quando sono presenti almeno cinque di queste dieci condizioni.

  1. L’interessato è eccessivamente assorbito dal gioco;
  2. Ha bisogno di giocare con quantità crescenti di denaro per raggiungere l’eccitazione desiderata;
  3.  Ha ripetutamente tentato di controllare ridurre o interrompere il gioco.
  4. È irrequieto o irritabile quando tenta di ridurre o interrompere il gioco.
  5. Gioca per sfuggire a problemi oppure per alleviare angoscia o depressione;
  6. Dopo aver perso tenta di recuperare le proprie perdite;
  7. Mente ad amici e familiari per nascondere il proprio coinvolgimento nel gioco d’azzardo;
  8. Ha commesso azioni illegali come frode, furto o appropriazione indebita per finanziarsi;
  9. Ha messo a repentaglio o perso una relazione significativa, il lavoro oppure opportunità scolastiche o di carriera per colpa del gioco.
  10. Fa affidamento su altri per reperire il denaro che gli consenta di tamponare una situazione finanziaria disperata provocata dal gioco. Essendo una dipendenza è possibile rec sarà necessario uno stile di colloquio centrato sulla persona caratterizzato da modalità empatiche e non giudicanti volto a facilitare il cambiamento, coinvolgendo i familiari che possono rappresentare un valido sostegno. Un approccio efficace per affrontare la ludopatia si basa su interventi psicoterapici come la terapia cognitivo comportamentale cercando di istruire il giocatore sui meccanismi che ci sono dietro i giochi, lavorando sul pensiero magico, insieme di affermazioni erronee e talvolta deliranti che albergano nella mente del giocatore. Ecco qualche esempio: ho giocato il 27 è uscito il 28 ci sono andato vicino; appena rivinco quello che ho perso non giocherò più, quella macchinetta oggi non ha ancora pagato ormai deve pagare. Ricordiamoci inoltre che la dipendenza è solo il sintomo, la punta di un iceberg che nasconde un conflitto più profondo.

Visto la larga diffusione di questa patologia, abbiamo pensato di mettere a disposizione con il contributo della banca locale e Comune di Pietrasanta dei cittadini uno sportello di ascolto, con lo scopo soprattutto di informare le persone, le famiglie di che patologia si tratta. Molto spesso le famiglie o i diretti interessati si avvicinano ai servizi quando sono nella disperazione totale, dove l’intervento degli operatori si fa più difficile. Attualmente lo sportello, dove è garantita la massima privacy è formato da una Psicoterapeuta con una grande esperienza sulle dipendenze classiche e da una neo laureata con una tesi proprio sulla ludopatia.
E’ possibile accedere allo sportello chiamando la mattina al seguente numero 0584/72600

I sensi di colpa nei programmi terapeutici delle comunità di recupero

Prof. Cristiano Castelfranchi

a cura di Davide Toschi
Gli eventi per cui ci assumiamo una responsabilità possono essere da noi causati intenzionalmente o anche inintenzionalmente. Ciò che è necessario però sia presente è la credenza che noi siamo stati capaci di farlo, quindi di essere stati nella condizione di potere essere determinanti nella realizzazione del fatto e, indispensabile è che ci sia, più o meno consapevolmente, la credenza che, così come si è stati capaci di farlo, ci fosse stata la stessa capacità di evitarlo. Questo, curiosamente si verifica anche per quel che concerne eventi, accadimenti, fatti del tutto casuali. Che ci si senta responsabili di qualcosa (ad esempio se scivolando in un negozio si è causata la rottura di un oggetto che stavamo osservando), di cui non si avrebbero responsabilità oggettive, quan-tomeno non di natura intenzionale è spiegabile con l’aver comunque causato un danno a qualcuno: nella fattispecie si è compromesso lo scopo del commerciante di vendere il tale oggetto. Pur avendo agito inconsapevolmente nella determinazione del risultato, ci si sente responsabili (colpevoli?) per quello che è accaduto. E’ innegabile infatti, che pur nella totale involontarietà del gesto, il risultato di compro-missione dello scopo del negoziante non sarebbe venuto a verificarsi, se quello stesso giorno ci fossimo per esempio recati in gita in un’altra città evitando così di poterci trovare lì nel momento dello “scivolamento”. Si trovano quindi sempre dei motivi per cui ci si possono attribuire delle responsabilità e quindi delle colpe, anche riguardo fatti nei quali la nostra volontà non è stata minimamente influente. Non che ci sia rapporto diretto tra responsabilità e colpa: nel senso che ci si può sentire responsabili di qualcosa, pur senza necessariamente crearcene un senso di colpa. Ma in proposito dell’attribuzione del tutto scissa dalla presenza di responsabilità, sia pur minime, infinitesimali o cabalistiche che si vogliano considerare, si consideri l’efficace esempio di Castelfranchi circa il paziente dimesso sano dopo gli accertamenti clinici svolti contemporaneamente ad uno sconosciuto vicino di camera che ha invece dei risultati compromettenti il suo stato di salute: ebbene anche in questi casi Castelfranchi sostiene che si possano produrre nel paziente sano (ovviamente) dei sensi di colpa. A suffragio di quest’ipotesi, che va quindi contro una serie di affermazioni precedenti che portavano a ritenere indispensabile la presenza di alcuni fattori, quali la responsabilità nella determinazione di una compromissione di scopo dell’altro, Castelfranchi basa la propria convinzione introducendo un nuovo paradigma d’indagine: il principio di equità. Da qui, la compromissione di questo senso di equità, che è per altro fattore individuato come biologico nella natura umana e base indispensabile per la considerazione del processo di determinazione dell’altruismo, determinerebbe il senso di colpa solo sul presupposto di disequilibrio. Un paradigma etico, quindi: partendo dalla considerazione egualitaria si introduce un meccanismo di auto-colpevolizzazione nel momento in cui ci si trova a contatto con una realtà che non soddisfa il nostro innato (quindi biologicamente determinato) senso di equità. Trovo insoddisfacente, la teoria secondo la quale si potrebbe rintracciare la causa prima di questo senso di colpa nella teoria probabilistica che si rifà ad una responsabilità che l’individuo fortunato si riconosce per avere con la propria fortuna determinato una minor probabilità di fortuna negli altri soggetti del mondo. Mi adagio quindi sulla ipotesi che il principio di equità abbia nella sua stessa formulazione (soprattutto nelle caratteristiche biologiche) le dimostrazioni della sua veridicità. Le premesse Da una lunga osservazione e personale conoscenza di soggetti che hanno sperimentato su loro stessi pragrammi terapeutici; da un contatto ed un interesse con il mondo delle tossicodipendenze e delle devianze in genere; da una frequentazione ed impegno in diverse ipotesi di aiuto (condivisione?) ai problemi più macroscopici delle più visibili forme di de-vianza; da un diretta esperienza in uno dei centri di accoglienza della prin-cipale struttura di recupero del centro Italia; dalla collaborazione con associazioni e riviste specializzate (Senzamargine del Ce.I.S., PCA News del SIMS, In Prima Persona, Fuoriluogo, Forum droghe, ecc.), infine, dall’avvicinamento ad una possibilità di approccio – leggi psicolgia cognitiva – nuova per il mio orizzonte cognitivo (appunto!), nasce l’idea di questo breve con-fonto con la materia e con le sue possibilità di indagine in questo campo così, per me , interessante. Non vorrei qui addentrarmi nel difficile ruolo di definire quali e se ci sono forme efficaci nella cura delle malattie sociali – quali le varie dipendenze e gli abusi di sostanze, nonché una vasta area di malattie comportamentali socialmente e psichicamente determinate – anche se è di questo, generalmente che le cosiddette comunità terapeutiche si occupano. A me interessa indagare, ovviamente nella consapevolezza dei miei ristrettissimi limiti, sulle nuove vie che l’approccio con la psicologia cognitiva mi ha indicato. Utilizzare quindi la materia per dare maggior chiarezza ad una nutrita serie di elementi che scaturiscono dall’osservazione dei modelli terapeutici proposti dalle comunità. Va detto anche che, essendo sul mio territorio presenti comunità che fanno dell’approccio comportamentale la base e lo strumento principale del loro lavoro terapeutico, forse questo mi ha aiutato a convincermi della possibilità che la psicologia cognitiva potesse fornirmi nuovi ed utili strumenti di lettura. Per non perdermi però nella sterminatezza di questi argomenti e nelle innumerevoli possibilità di approccio con il problema, restringerò il campo cercando di applicare un pò delle nuove pos-sibilità interpretative a uno o due modelli terapeutici che meglio conosco. I due modelli paradigma Due, diversissimi tra loro, sono i modelli che intendo prendere a riferimento in queste brevi considerazioni. Il Ce.I.S. Centro Italiano di Solidarietà è un istituto fondato da un religioso: don Bruno Frediani. Centro importante, come dimensioni e come referenti politico istituzionali, ha le sue sedi sparse un pò per tutta la penisola. Originariamente fondato su una ipotesi di lavoro denominata “progetto uomo” che proveniva diretta-mente da una serie di osservazioni e studi che don Bruno, assieme ad un altro conosciuto prete dedito al volontariato: don Mario Picchi, avevano tratto da frequenti viaggi negli Stati Uniti dove prendevano a riferimento gli sviluppi dei primi centri di disintossicazione da oppiacei creati e sviluppati per i reduci della guerra del Vietnam. Si era agli esordi dell’approccio medico – terapeutico. Ai pochi farmaci disponibili veni-vano affiancati dei programmi di destrutturazione e ricostruzione degli indi-vidui che hanno lasciato pessime tracce nelle comunità che tuttora fanno riferimento ad approcci di tipo comportamentale. Da pochi anni, “progetto uomo”, un programma che peraltro partiva dall’assunto di essere proponibile a tutti indistintamente e da tutta una serie di interventi mirati a “ricostruire” una nuova persona dal cadavere dell’uomo che entrava a far parte del programma, è stato definitivamente abbandonato da don Bruno Frediani. Il quale, si è autoescluso dal Ce.I.S. organismo nazionale, creandosi un suo ambito di lavoro in alcune delle strutture Ce.I.S. presenti sul territorio prevalentemente lucchese. Dalle cinque o sei strutture di riferimento è quindi partito un nuovo progetto che mira a co-struire intorno all’individualità del singolo (quindi rispettandone le soggetti-vità culturali, caratteriali e, quindi, comportamentali) un personale progetto di (……….?). Di cosa, non mi è ancora dato capire.

Il Progetto Comunità Aperta, nasce invece a Pietrasanta – siamo ancora nella provincia di Lucca, ma questa volta nel cuore della Versilia storica . una quindicina di anni fa, grazie all’impegno ed alla cocciutaggine di tal Roberto Nardini.

Da allora il S.I.M.S. (Studio e Interventi sulle Malattie Sociali) che sorregge il progetto, si è impegnato a realizzare una serie di interventi sul territorio e in tutto l’ambito nazionale, che parte dal concetto di Riduzione del Danno (RD da qui in avanti), per proseguire sulla strada di una laica considerazione della realtà oggettiva, che mai ed in nessun modo andasse ad interferire con quello che è il rispet-to del singolo individuo. Offrire quindi a chi ne avesse bisogno il conforto di un centro, di persone attrezzate (culturalmente, scientificamente e organizzativamente) che potessero offrire un aiuto nel con-tingente e nella realizzazione di eventuali progetti futuri. Il PCA, non è quindi una comunità nel senso comune del termine, è un progetto di sostegno a chi ha reale necessità di aiuto, senza distinzione di intenti, senza distinzioni etiche, morali. Saltano certo agli occhi alcune grandi differenze tra le due realtà: la prima che esiste per redimere, per riportare sulla giusta strada coloro che sbagliano. E che deve quindi basarsi sul presupposto di giustezza delle proprie ipotesi, prima di tutto etico-morali, e sulla fondamentale decisione del soggetto di interrompere la sua pratica d’uso (o d’abuso, o di dipendenza) dalla/e sostanza/e. Il PCA, che parte da una logica totalmente differente e che può anche sbagliare nell’impostazione astratta, etica della cura, ma che ha certo un comportamento di pieno rispetto per le scelte dell’individuo: qualunque esse siano. Base di partenza teorico-pratica è la convinzione che il tossicodipendente sia un soggetto malato e che quindi necessiti di tutte le cure disponibili. Il fatto di considerare la tossicodipendenza come una malattia del corpo anziché, come fanno i precedenti, una malattia della mente, non viene da assunti in astratto: nel 1994, dopo anni di studi, l’OMS (l’Organizzazione Mondiale della Sanità) ha compreso le tossicodipendenze tra le malattie pienamente riconosciute.

Il PCA propone quindi una serie di interventi, primo tra i quali la terapia di mantenimento metadonico, finalizzati a permettere all’individuo – solitamente spossato dalla quotidiana pratica della droga di strada – di ricostruirsi fisicamente e psicologicamente, offrendogli quindi l’alternativa del sostituto farmacologico. Sostituto che non può essere denominato in nessun caso droga di stato, a meno che non si voglia comprendere in questa definizione anche una serie di droghe legali – dagli psicofarmaci, all’alcool ecc. – e, last but not least, l’eroina stessa (che in moltissimi casi è stata promossa dallo stesso Stato. – Anche senza andare in polemici discorsi quali quelli sulla funzione positiva dell’eroina in certi momenti storici, gli Stati Uniti in Vietnam, per esempio, ne hanno fatto un uso “legale” ed indiscriminato, ormai accertato!). Il metadone ha origine come sostituto di laboratorio dei morfinacei e venne scoperto dai chimici hitleriani negli anni della guerra mondiale, momento in cui gli alleati aveva-no impedito ai nazisti l’approvvigio-namento agli antidolorifici – leggi derivati della morfina – ed ha dimostrato e continua a dimostrare i maggiori successi negli interventi sulle tossicodipendenze . La psicologia cognitiva nei processi di destrutturazione scientificamente programmata: L’appartenenza al gruppo. E’ partendo dalle considerazioni di Rupert Brown sulle modificazioni del concetto di sé che mi sento di iniziare ad utilizzare la psicologia cognitiva per indagare meglio alcuni meccanismi propri dei processi di destrutturazione attuati nelle terapie di tipo comportamentale. Dice Rupert Brown: «(…)Una delle prime conseguenze del divenire membri di un gruppo è un cambiamento nel modo in cui vediamo noi stessi. L’inserimento in un gruppo richiede spesso da parte nostra una ridefinizione di ciò che siamo, la quale, a sua volta, può avere delle impli-cazioni per la nostra autostima. (…)» Si introduce qui uno dei requisiti essenziali per il funzionamento della destrutturazione sull’individuo. Ogni comunità di tipo comportamentale, prevede la permanenza nelle proprie strutture, con il necessario adeguamento del soggetto in trattamento alle regole ed agli impegni della comunità (gruppo) che lo accoglie. Delle regole e degli impegni ne diremo in seguito, ma qui già possiamo affermare che ciò che Brown sostiene circa il processo di riconsiderazione della propria autostima è caratteristica essenziale per essere accettati (poter far parte?) del gruppo. E su questo, in relazione a questo, sono molti gli interventi che si possono fare e si fanno. Per esempio è condizione necessaria, affinché si riconosca l’autorità degli educatori, ridefinire la propria autostima ad un livello nettamente inferiore alla stima ed alla valutazione degli stessi. Un’altra considerazione che si può fare con Brown è che l’aderenza ad un gruppo ne determina anche l’accettazione delle caratteristiche. A questo proposito mi sembra importante sottolineare la frequenza con la quale un individuo tossicodipendente (nel momento stesso della sua dipendenza, paradossalmente lo è meno in momenti diversi, o successivi) si estranea dalle definizioni proprie del suo gruppo di appartenenza. Si pensi per esempio a quante volte si sente dire: «Ma io sono diverso, (…) Non sono proprio “tossico”.» E, anche se può apparire strano, la sola accettazione di appartenenza al gruppo in cui le comunità lo comprendono è di per sé forte riduzione della propria autostima: primo, perché in ogni caso implica la rinuncia ad una soggettività, poi, perché il gruppo nel quale ti accolgono è sempre un gruppo di basso valore morale (e nel peggiore dei casi, si può essere stati relegati in definizioni assolutamente insuperabili. E’ il modello Muccioli, che considerava i tossico-dipendenti solo come soggetti vita natural durante della propria malattia. Per Muccioli, senior, non aveva ragione di esistere la denominazione di ex-!) C’è una richiesta che immediatamente si fa ad un soggetto che decide di sostenersi ad un programma terapeutico di questo tipo: è quella di affidarsi completamente e senza riserve. Di dare fiducia cieca agli operatori, agli educatori. Questa, ti viene spiegato subito, è condizione essenziale per la buona realizzazione degli obiettivi che il programma si dà. Obiettivi che sono solitamente quelli, non tanto di farti conoscere te stesso per quello che sei, che sei stato e che puoi o potresti essere, ma che sono quelli di uscire di lì conoscendo una nuova persona, che si è pentita rinnegando la precedente ed ha iniziato a considerare un altro se stesso che non conosceva e che dovrà essere, di lì in avanti, il proprio nuovo ego. Come bene si può vedere, anche il fatto di condizionare il risultato del programma a certi comportamenti del soggetto trattato, possono essere territorio di analisi dal punto di vista della psicologia cognitiva (si riscontrano le caratteristiche del senso di colpa con colpa , nel concetto preciso di responsabilità. Ma si deve, e si potrà farlo meglio in seguito, considerare che sempre qui il concetto di responsabilità è legato a comportamenti relativi ai rapporti con la comunità in senso stretto e con quelle che ne sono le proprie ramificazioni.

E’ invece totalmente disatteso, quando si tratta di elementi personali o di responsabilità individuali). Questo dell’affidarsi, è uno scoglio grossissimo per i successi dei trattamenti ed è causa di un numero molto rilevante di rinuncie al proseguo del trattamento. Il programma di cui posso portare testimonianza, come del resto tutti quelli che conosco, pur non per esperienza diretta, prevedono una fase di preparazione al programma vero e proprio, solitamente definito di accoglienza. E’ durante questa fase che si presenta appunto questo primo scoglio dell’affidamento agli operatori che ritengo di poter individuare anche come prima indispensabile tappa del processo di destrutturazione. Il termine destrutturazione (che risale appunto ai primi programmi terapeutici americani) può anche apparire, e secondo me è, piuttosto brutto, ma certo non deve sembrare inadeguato. I presupposti sui quali si poggiano infatti i programmi terapeutici della mag-gior parte delle comunità (ripeto basate sul modello comportamentale) prevedono lo svuotamento del paziente (uso il termine anche se sò che non ne converrebbero) dai contenuti del suo essere. E’ qui che si trovano ancora enormi differenze tra una visione laica-liberista e la visione morale-intransigente di molte di loro. Per me è contenuto dell’essere anche ciò che fa parte del comportamento, ciò che è la prassi quotidiana, ciò che ci rende visibili, manifesti. Con questo non voglio certo negare che ognuno di noi conviva con una serie di contraddizioni che determinate pratiche (nelle sue più svariate forme: dalle terapie psicanalitiche alle sedute spiritiche; dall’autoipnosi alla meditazione trascendentale) siano in grado di aiutarci a superare o, quantomeno, a conviverci. Ma da qui, a liberarsi di tutto per diventare nuovi soggetti scevri da problemi e compromissioni… ce ne corre! E dopo che ci si è affidati, ci si è quindi ridimensionati moralmente al ruolo dei peccatori ante-vitaem, inizia il lungo lavoro di terapia vera e propria. Primo confronto con la terapia è l’accettazione e la condivisione del senso di colpa. Vero principio basilare delle comunità Ce.I.S., il senso di colpa viene progressivamente definito e quotidianizzato nella vita di tutti i soggetti in trattamento. A partire dalle prime settimane, e sempre con maggior insi-stenza, i responsabili del programma invitano i pazienti a comunicare loro e al gruppo di appartenenza (sono dei sottogruppi determinati dagli stessi operatori) i sensi di colpa che quotidianamente li pervadono. Dalle prime volte, nelle quali i foglietti consegnati registrano una predominanza di righe bianche si passa a una sottoscrizione plurigiornaliera di cosiddetti SdC. E nell’accezione di questa, come di altre comunità a base comportamentale, essi comprendono anche la comunicazione di tutti i comportamenti trasgressivi cui si assista o di cui ci giunga notizia (forse sta qui l’origine della legislazione premiale di Dalla Chiesa … !). Ho sentito affermare da operatori stimati e (sic!) qualificati che il SdC trovava una sua naturale giustificazione d’essere nella necessità di rigetto dell’omertà, tanto diffusa tra i tossicodipendenti. Ecco un importante oggetto d’indagine per la psicologia cognitiva! Pur nella necessaria ridefinizione del SdC a qualcosa di preciso (e di comprensibile!) mi interessa vedere quali sono i meccanismi che scaturiscono da questa pratica – che come detto da nulla diventa poi sempre più frequente – quindi indagare su quali siano i motivi che spingono delle persone ad accettare che, per il proprio ed il comune bene, si passi sopra a delle credenze, che per quanto discutibili in contesti del genere – si pensi non all’omertà, ma al semplice principio di farsi i cazzi propri, o del rispetto per la responsabilità altrui, per dirlo meglio – son sempre ben radicati nella cultura e nei principi etici di un individuo normale. E’ chiaro, quindi, che alla base di questi programmi ci siano degli agenti psicologici estremamente forti. Proviamo ad individuarne alcuni oltre a ricercare le motivazioni che sono alla base di questa primaria scelta del SdC come stru-mento privilegiato di controllo da parte della struttura . Primo semplice elemento che osserviamo è il più frequente, almeno inizialmente, SdC comunicato (è terminologia comunitaria. Normalmente, credo, si direbbe confessato): la trasgressione di una regola. Abbiamo visto come la trasgressione comprenda alcuni tipici elementi costitutivi del SdC. Facciamo un semplice esempio: la regola dice che non si possono bere più di tre caffè al giorno. Il cuoco, che ha preparato il caffè per la cena, ha visto avanzare, nella caffettiera, o nel termos dove è stato riposto per essere servito a tavola, un caffè. Avendo egli bevuto già i suoi tre caffè giornalieri permessi, dovrebbe comunicare agli operatori di sentirsi in colpa per averne bevuto un altro (ovviamente, nel caso finisse il caffè avanzato anziché tirarlo via). Si badi bene: NON avrebbe dovuto dire di aver bevuto il caffè, ma avrebbe dovuto comunicare il suo SdC per averlo fatto. Prescindendo dal fatto che il caffè si sarebbe potuto riutilizzare anche il giorno dopo per la colazione (ma allora anche nel caso che si fosse buttato via, sarebbe dovuto sorgere lo stesso SdC, invece, no!), dando quindi per scontato che non si è prodotto alcun danno per chicchessia e che l’insorgere del SdC sarebbe imputabile soltanto al fatto di aver trasgredito una regola, si analizzi il caso. Il cuoco ha bevuto il caffè ormai da buttare (era uno solo, non conveniva metterlo in un tegamino – principio economico sia per il lavoro successivo di risciacquarlo quanto per il costo del detersivo e dell’usura del tegamino…(!)) trasgredendo ad una esplicita regola della vita comunitaria. Perciò egli deve comunicare il SdC che sta provando. Il cuoco può provare o meno questo SdC, resta il fatto che egli sia obbligato a comunicarlo. Se le prime volte egli non lo farà (è un dato statistico, che non lo farà), dopo un certo periodo di permanenza in comunità, egli tenderà ad evitare di bere il caffè (contravvenendo quindi alle regole di economicità che contraddistinguono quasi sempre il nostro agire) ma quando lo facesse (e lo farà, nel suo protrarsi di vita comunitaria, più di una volta) nell’80 ed anche nel 90% dei casi, andrebbe a comunicarlo. O, meglio, andrebbe a comunicare il senso di colpa che gli deriva dall’averlo fatto. E, ancora seguendo questa scansione temporale, ci si accorgerebbe che dapprima egli comunicherebbe un SdC che in realtà non sente, mentre con l’andar del tempo egli comunicherebbe realmente: né più né meno ciò che realmente sente. Si dovrebbe quindi dire che la comunità sta funzionando, in quanto che, l’individuo (il cuoco del nostro esempio) sta assimilando i concetti, le regole della co-munità tanto da farli prevalere sui suoi stessi principi di economicità che, mi pare anche a livello scientifico, vengono spesso rintracciati quali biologici. Forza del convincimento! Dicendo a questo proposito (del convincimento) che non trovo argomenti correlabili nel pur interessante libro di R.Cialdini , e che potrei tutt’al più riferirmi all’interpretazione del senso di equità di Castelfranchi, sospendo questo lavoro di così grande interesse e “passione” con la promessa, a me stesso, di riprenderlo non appena le condizioni di impegni minori me lo permetteranno.

L’ultima parte che segue, è precedente a questa appena letta, e siccome frutto di fatica e, spero anche degna di qualche nota, la lascio. Appendice Cosa siano e quali le terapie, o meglio le diverse pratiche terapeutiche, che compongono un programma di recupero propriamente detto (che, per inciso, solitamente abbraccia un periodo di tempo che va da un anno e mezzo a tre, quattro anni) non è mio interesse dire nel particolare. E’ invece mio proposito quello di andare ad indagarne alcuni che cercherò di colle-gare ai pochi strumenti che la psicologia cognitiva mi ha, finora, messo in grado di usare. Il lavoro di gruppo è cardine dei programmi Ce.I.S.. In questi gruppi (ce ne sono di diverso tipo: da quelli di preparazione a quelli terapeutici veri e propri) si consente ad una serie di soggetti messi insieme dagli operatori di intraprendere un cammino parallelo che li porta ad affrontare, assieme e mano a mano, gli aspetti più contraddetti del loro proprio comportamento. Per fare un esempio si pensi che si fanno durante il programma gruppi di sessualità, di regressione, di violenza, ecc. Questi gruppi, che hanno molto spesso una origine scientifica e terapeutica già dimostrata ed acclamata, hanno però la caratteristica, in questi casi specifici – perché le stesse terapie possono essere condotte anche al di fuori delle comunbità – di essere pratica di persone che vivono tra di loro e con nessun altro che loro, in una condizione protetta, ma aliena alla realtà circostante. Ciò significa, anche, non certo soltanto, che i risultati terapeutici di tali attività, vengono ad esprimersi e, vorrei osare, ad introiettarsi, alla luce di un ambiente, di una situazione che in quanto protetta, non permette loro di risultare con la stessa efficacia indipendentemente dalla situazione contingente. Questo può certo stare anche alla base dei numerosissimi insuccessi di tali programmi di recupero, nonché dell’interessantissimo e poco analizzato fenomeno della “sindrome di dipendenza” da comunità
Bibliografia

J. G. Benjafield: Psicologia dei processi cognitivi, Il Mulino 1995

C. Castelfranchi-R. D’Amico-I. Poggi: Sensi di Colpa, Giunti 1994

R. Cialdini: Le armi della persuasione, Giunti 1991

M. Miceli-C. Castelfranchi: Le difese della mente (i capitoli: 10: Difese dal senso di colpa e 11: Il ruolo dell’autoimmaginazione), NIS 1995

R. Brown: Psicologia sociale dei gruppi. Dinamiche intragruppo e intergruppi (i capp. 1: La realtà dei gruppi, 2: Processi elementari nei gruppi, 6: Pregiudizio e scontento sociale, 8: Categorizzazione sociale, identificazione sociale e relazioni intergruppi.

Don Bruno Frediani: “Progetto Uomo” cicl. in proprio, Lucca 1978

Senzamargine: bimestrale del Cesers Centro Studi e Ricerche Sociali, Bottega della Solidarietà

 

Chiuso il centro clinico di ricerca e di assistenza per tossicodipendenti dell’università i pazienti si sono rivolti tutti a Pietrasanta

da Liberazione 5/01/05

Chiuso il centro clinico di ricerca e di assistenza per tossicodipendenti dell’università i pazienti si sono rivolti tutti a Pietrasanta. Pendolari per vivere

«Il 23 dicembre il professor Cassano, in modo che io non esito a definire criminale, ha chiuso definitivamente il centro di ricerca e di assistenza per tossicodipendenti all’interno dell’università». La denuncia arriva da Roberto Nardini, figura storica del volontariato nel campo delle tossicodipendenze, in prima linea in Versilia dal 1977, presidente del Sims (Studio intervento malattie sociali), associazione che tra ricerca, assistenza diretta e unità di strada, vanta anche un servizio difesa dei diritti dei tossicodipendenti (Ddt). Il centro di ricerca e assistenza chiuso, attivo dal 1994, al quale facevano riferimento 80 utenti per la somministrazione del metadone, era nato proprio dalla collaborazione tra il Dipartimento di neuroscienze dell’università di Pisa e il Sims (www.sims.it).Una struttura comunque dipendente da un unico “deus ex machina”: il professor Giovanni Battista Cassano.

Pazienti senza rete
E’ stato un brutto Natale quello degli utenti seguiti dal servizio universitario per le tossicodipendenze. E l’anno nuovo non promette bene. I pazienti dell’ex centro universitario sono stati indirizzati ai Sert locali di appartenenza, ma nel giro di ventiquattro ore, i più, sono tornati a cercare i medici e gli operatori che da anni li avevano in carico. Anche perché molti dei Sert che avrebbero dovuto farsene carico gli hanno sbattuto la porta in faccia. Ritrovarsi senza la dose giornaliera di metadone, per chi con fatica ha trovato un lavoro e si è rifatto una vita, una famiglia, per chi ha chiuso con un passato da tossico da strada, non è facile. Così spinti dallo spirito di sopravvienza si sono ritrovati tutti a fare la fila la Sert di Pietrasanta, dove prestano servizio medici e operatori del centro universitario chiuso alla vigilia di Natale. «Si è sfiorata la tragedia – racconta Nardini -. Per poco si è potuto evitare l’intervento delle forze dell’ordine. Abbiano comunque affrontato l’emergenza. Ma ora c’è il caos». I servizi della Asl non hanno risorse sufficienti. «E nemmeno noi ce l’abbiamo. Non si riesce nemmeno a risolvere il problema della produzione adeguata del farmaco necessario. I costi invece di essere supportati dalle Asl gravano tutti su di noi» tuona ancora il presidente del Sims.

Unità di strada 1998 – rinfrescare la memoria aiuta a capire meglio

Nardini spiega il funzionamento dell’«unità di strada» di Pietrasanta
«E noi li aiutiamo così ad uscirne»
Il Tirreno di domenica 25 gennaio 1998

VIAREGGIO – «La tossicodipendenza è una malattia del sistema nervoso centrale, spesso cronica, che richiede terapie di lunga durata. La cura è farmacologica, per sopperire alla mancata produzione naturale di endorfine. Dunque la soluzione all’eroina è il metadone, somministrato in dosi adeguate e su tempi lunghi. Ogni altro approccio è soltanto ideologico».
La vede così Roberto Nardini, che dal ’93 coordina a Pietrasanta l’«unità di strada» di via Stagi, dove cinque volontari e un medico (Carlo, figlio di Nardini), sono disponibili dalle 9.30 alle 19, ma reperibili 24 ore su 24 al 72600. «I ragazzi in cura arrivano anche da Taranto come da Trieste. Qui trovano una diagnosi clinica – spiega Roberto Nardini – anziché tante chiacchiere sulla perdita dei valori e via dicendo. Con il metadone li si toglie subito dalla strada, e continuando la somministrazione sul lungo periodo si ottiene un effetto stabilizzatore che consente il reinserimento. A quel punto li aiutiamo a trovare un lavoro, presso gli artigiani della zona o stagionale, o li incoraggiamo a riprendere gli studi».
Secondo Nardini in Versilia la tossicodipendenza è un fenomeno «contenuto ma costante, mentre alla dipendenza da eroina si va aggiungendo l’abuso di alcol e pasticche». Le vittime vengono dalle più disparate situazioni familiari e da tutti i ceti sociali. L’età si va alzando: la trentina di ragazzi oggi in cura in via Stagi ha in media 28 anni. «Il nostro servizio funziona anche a distanza – dice ancora Nardini – perché i “tossici” hanno bisogno anche di qualcuno che li difenda dai Servizi tossicodipendenze della Usl. Al Sert infatti vengono spesso negati diritti sanciti dalla legge come la scelta del medico curante e del programma terapeutico. E poi con il metadone a scalare finisce che un ragazzo viene disintossicato anche trenta volte, ma puntualmente ricomincia».Ma Nardini ne ha pure per le comunità: «Costano un miliardo all’anno di retta, senza aver ancora prodotto un risultato. In troppi continuano a fare dentro e fuori per anni, fino alla volta che escono e muoiono di overdose». Tuttavia Nardini ammette che «a Viareggio e Pietrasanta il Sert funziona bene, anche se non è aperto 24 ore su 24 come dovrebbe. Dopo anni di polemiche oggi lavoriamo in collaborazione, spesso accogliendo in via Stagi pazienti in delega dal Sert. Inoltre istituiremo insieme borse di studio, e iniziative di reinserimento sociale».
Che dire invece della disponibilità annunciata dall’assessore regionale alla sanità Claudio Martini di sperimentare la somministrazione controllata di eroina? Nardini, sebbene «antiproibizionista convinto», ha grossi dubbi sul fatto che gli amministratori e operatori toscani siano all’altezza dell’impresa. «In linea di principio il metodo può funzionare. Ma scelte e decisioni dovrebbero toccare piuttosto a chi non fa tanti discorsi ed opera invece ogni giorno sul campo, dati scientifici alla mano».

 

La paura dell’Aids e i nuovi stimolanti hanno cambiato il mondo della droga

La paura dell’Aids e i nuovi stimolanti hanno cambiato il mondo della droga
di Michele Morabito

PIETRASANTA. Droga, cambia il panorama dei consumi, ma non accenna ad estinguersi il fenomeno. Alcuni anni fà Pietrasanta era un fiorente mercato di eroina, un fenomeno che tutte le associazioni che in città hanno operato – Sert, Pca, Sims e forze dell’ordine – sono concordi nel valutare in calo tanto che si può dire che la città ha finito di essere un centro di spaccio di eroina e che il numero dei tossicodipendenti è radicalmente diminuito. ma contemporaneamente non si può dire che sia terminato il mercato della droga, che si è invece evoluto in una dimensione non meno pericolosa, verso il consumo di psicostimolanti, le “nuove droghe”, così come vengono definite; anche se nuove in verità non sono visto che già da alcuni sono sul mercato e che non sono meno pericolose.
«Il panorama attuale del consumo di droga in Versilia», spiega il dottor Intaschi, medico del servizio tossicodipendenze dell’Asl Versilia, «è difficile da sintetizzare in poche parole; si è passati da una prevalenza di consumo di neurodeprimenti, quali l’eroina, al consumo di psicostimolanti, quali l’ecstasy, di cui tanto si parla in queste settimane, senza però dimenticare la cocaina che è un fenomeno ancora più vasto di quello delle pasticche. Sono affermazioni che non trovano riscontro nei dati della nostra utenza dato che si rivolgono a noi soprattutto gli eroinomani, la cui età sta progressivamente accrescendosi, mentre difficilmente si rivolge a noi il consumatore di pasticche convinto che i rischi siano minori e che non si crei una dipendenza; cosa assolutamente falsa. Il perché di questa evoluzione che non è solo versiliese, ma dell’intero mercato, è spiegabile con vari motivi: è convincente la teoria per cui la diffusione di una droga sia paragonabile all’esplosione di una epidemia contro la quale si creano nella società degli anticorpi, poi si presenta una nuova droga e così via. Contro l’eroina a Pietrasanta ha certamente influito l’azione nostra e di associazioni quali il Pca ed il Sims che hanno contribuito a dare un aiuto a chi voleva uscirne, ma soprattutto credo che abbia influito la diffusione dell’Aids che ha funzionato da deterrente contro le droghe da assumersi per endovenosa. Ciò ha aperto paradossalmente il campo alle nuove droghe – che nuove poi non sono – assunte per via orale, che sembrano più “pulite” e che qualcuno ancora giudica come un passo avanti rispetto al passato».
«Sarebbe un errore”», spiega Roberto Nardini, presidente del Progetto comunità aperta, che ha la sede in via Stagio Stagi – sede la cui apertura ebbe una lunghissima opposizione di parte della popolazione – «credere che il panorama della droga è cambiato o che l’eroina non è più un problema a Pietrasanta. Ciò che è cambiato è il mercato, Pietrasanta non è più uno spaccio di eroina, grazie anche alla nostra azione che ha aiutato molti tossicodipendenti a trovare un punto di appoggio e le autorità sanitarie a correggere i dosaggi della terapia metadonica per renderla finalmente efficace; siamo stati dei pionieri in questa via, tanto che nei giorni scorsi c’è stato un convegno dal titolo “Pietrasanta come Erice” nella formula del talk show condotto da Romano Battaglia, in cui appunto si è parlato delle nuove terapie».
«Per quanto riguarda le nuove droghe», continua Daniele Baldi, presidente della Difesa dei diritti dei tossicodipendenti, «così come sono chiamate, esistono da sempre, ma solo adesso sono diventate fenomeno di mercato; il grande errore è credere che i consumatori di ecstasy siano consumatori esclusivi; in realtà alla pasticca si accoppia spesso l’alcool e lo spinello e talvolta come autoterapia l’eroina, che funge da calmante rispetto allo sballo provocato dagli psicostimolanti; è un circolo vizioso che porta di nuovo alla che dipendenza. Non accade invece l’opposto, cioè che l’eroinomane passi allo psicostimolante».
Difficile, dunque affermare che il fenomeno della droga sia un fenomeno in via di estinzione, ma come intervenire? «I risultati di questi anni», afferma il maresciallo dei carabinieri di Pietrasanta, «sono stati molto positivi; da parte nostra consideriamo il fenomeno eroina quasi debellato per quanto riguarda il centro di Pietrasanta, mentre sempre qua nel centro storico è pressoché inesistente il fenomeno ecstasy, legato prevalentemente ai locali da ballo, comunque tenuti in stretta osservazione ogni fine settimana. Per quanto riguarda la prevenzione, sarebbe auspicabile una collaborazione più stretta tra forze dell’ordine, disponibili a portare la propria esperienza, e scuole, che non sempre si dimostrano interessate a tali iniziative».
Meno ottimisti gli operatori del Sert sugli psicostimolanti: «Bisogna intervenire più profondamente», conclude il dottor Intaschi, «direi a livello culturale, dato che la scelta di un divertimento sano sembra per i giovani più difficile che la scelta dello sballo. Da parte nostra abbiamo attivato in collaborazione con altre associazioni il progetto “Il Filo” che offre a tutti un numero verde (800274233 dalle 15 alle 18) per offrire informazioni; la telefonata è gratuita e anonima».

2000

Versilia: una comunità aperta contro la tossicodipendenza

Versilia: una comunità aperta contro la tossicodipendenza

Il progetto Comunità Aperta di Pietrasanta è diventato un punto di riferimento internazionale per l’innovativo percorso di cura e per la ‘filosofia’ che lo ha contraddistinto fin dal momento della sua nascita: parla il professor Maremmani

di Valeria Caldelli

Versilia, 12 maggio 2013 – Il progetto Comunità Aperta di Pietrasanta è diventato un punto di riferimento internazionale per l’innovativo percorso di cura e per la ‘filosofia’ che lo ha contraddistinto fin dal momento della sua nascita, ‘filosofia’ che ha dato ottimi risultati nella lotta contro la dipendenza dalle sostanze stupefacenti e i gravi problemi che ne derivano. L’idea di realizzare un centro “aperto”, anziché chiudere i tossicomani che vogliono guarire dietro mura e cancelli, e l’idea di farlo nascere proprio nel cuore della Versilia, dove transitano migliaia di turisti, negli anni 80 apparve come una vera rivoluzione.

Oggi il professor Icro Maremmani , fondatore di quel progetto e docente di Medicina delle Farmacotossicodipendenze all’Università di Pisa, sollecita l’ampliamento di quella esperienza presentando un nuovo progetto: curare questo tipo di ammalati nelle loro case attraverso l’attività integrata di medico di base, medico specialista e farmacista.  La proposta è stata lanciata nel corso  del convegno “Global Addiction & Europad. Joint Conference 2013”, che si è appena chiuso a Pisa e a cui hanno partecipato esperti  provenienti da tutta Europa.
Professor Maremmani, cosa ha dimostrato l’esperienza di Pietrasanta?
“Che è possibile superare lo steccato dell’isolamento sociale che caratterizza a volte i percorsi terapeutici all’interno delle comunità di recupero e dei servizi pubblici. Una scommessa vinta sulla complementarietà fra interventi psicosociali e farmacologici, ma soprattutto sul rifiuto dell’emarginazione alla quale sono spesso sottoposti i tossicodipendenti che scelgono di combattere la loro malattia”.
Ma all’inizio questo metodo fece scalpore….
“Il modello generalmente usato per il trattamento aveva ed ha il limite di separare le persone con dipendenza da sostanze stupefacenti dal proprio contesto sociale. A mio modo di vedere non è mai stato scardinato il preconcetto della ‘mela marcia’ che rischia di contagiare la società e che quindi va in qualche modo allontanata. Il Progetto Comunità Aperta fece scalpore perché si basava sull’idea di curare le persone laddove si drogano, per reinserire davvero il paziente nell’habitat sociale dal quale proviene e nel quale è divenuto dipendente. Non drogarsi più nel posto in cui prima ci si drogava rappresenta per noi la vera guarigione”.
Cosa è cambiato dagli anni 80 ad oggi?
“La dipendenza da sostanze stupefacenti è aumentata. In Italia  172.000 pazienti sono in cura nei Sert, ma è  solo una parte di coloro  che avrebbero necessità di un trattamento. I dati del Dipartimento Politiche Antidroga parlano di 520.000 tossicomani . Poi ci sono tutti coloro che restano nel ‘sommerso’, vale a dire che non sviluppano la malattia, pur utilizzando sostanze stupefacenti. Inoltre sono cambiate anche le caratteristiche sociali dei nuovi dipendenti. Oggi questi sono più integrati di un tempo, meno ‘rovinati’, sono in mezzo a noi. Sono padri, lavoratori, figli di famiglie agiate e socialmente ben inserite”.
Non tutti quello che assumono forti quantità di  droga, dunque, diventano tossicodipendenti?
“Eroina e cocaina producono dipendenza in meno della metà delle persone che ne fanno uso. E’ un problema di resistenza del cervello alle sostanze stupefacenti. Quando la resistenza è bassa si sviluppa la malattia, se è alta no, anche se indubbiamente ci troviamo di fronte ad un funzionamento peggiore”.
E nei medicinali che cosa è cambiato?
“Il metadone è un farmaco efficace, ma per distribuirlo ci vogliono apparecchiature che necessitano della supervisione degli operatori. In più è appetibile sul mercato nero. Esiste però un nuovo farmaco che si assume attraverso compresse  e quindi garantisce costi minori per la comunità. E’ ugualmente efficace e ha minori possibilità di spaccio”.
Qual è allora la sua proposta?
“Quella di far diventare la terapia per i tossicomani come tutte le altre terapie. Ciò significa rivolgersi prima dal medico di base, il quale potrà prescrivere dei farmaci oppure, nei casi più gravi, inviare dallo specialista. Tutto questo continuando a vivere in casa propria. Così come il cardiopatico, anche il tossicodipendente ha il diritto di vivere la sua vita. Sarebbe un ulteriore passo avanti contro la ghettizzazione di questi pazienti  rispetto al progetto stesso della Versilia, i cui abitanti hanno già ben capito come un minore isolamento produce un reinserimento vero e quindi minore criminalità”