Difesa diritti dei tossicodipendenti

E’ una associazione che nasce nel 2000 quando il PCA muoveva i primi passi. Associazione voluta per volere dei Compagni Marco Dal Porto, Daniele Baldi e Nando Melillo.
L’intento, lo sforzo fatto in questi anni è stato quello di coinvolgere Utenti e anche cittadini comuni nel promuovere iniziative, ma sopratutto informare gli utenti sulle corrette cure per quanto riguarda la cura per le tossicodipendenze.
Va detto che quando è nata l’associazione c’erano tanti problemi, sia per l’accesso alle terapie, intanto i dosaggi adeguati ma sopratutto sui diritti, in particolare la battaglia fatta è stata quella di mettere in condizione l’utente di svolgere una vita normale, affidando il farmaco. Oggi per legge il metadone può’ essere affidato fino a 30 gg, addirittura può’ essere prescritto anche dal medico di famiglia previo piano terapeutico del serd.
Oggi 2019 sono stati fatti tanti passi avanti, grazie anche all’informazione del PCA che con Roberto Nardini ha tenuto conferenze in tutta Italia.

Segue video di Francesca Corchia Nando Melillo e Valentina Torri
il sito

– 2018 –

Come è consuetudine alla fine dell’anno mettiamo alla vostra attenzione una breve relazione del nostro servizio. Rispetto allo scorso anno non ci sono novità di rilievo nelle attività giornaliere, l’unica news è il ritorno dell’eroina nel mercato dello spaccio minuto.

Purtroppo la grave situazione in Afghanistan ha sicuramente favorito il mercato dell’oppio, che arriva nelle piazze delle nostre città a prezzi veramente bassi, si parla di 5 euro per una dose! Nel tempo è cambiata la modalità di acquisto e soprattutto di consumo, i tossicodipendenti tendono sempre più a fumarla, sniffarla,  ma non mancano quelli che ancora preferiscono iniettarla, anche se dal punto di vista della dipendenza non cambia niente. La presenza degli utenti del PCA più o meno si attesta sui 160 unità, solo l’estate tende ad aumentare.
Il dato più importante rimane quello sommerso, si tratta di persone coinvolte nel consumo è sconosciute ai servizi che per vari motivi ne sono lontani, pensando di risolvere il problema tra le mura di casa.
Rileviamo un aumento di persone segnalate alla prefettura per consumo e acquisto di stupefacenti.

Per quanto riguarda la nostra utenza (Versilia nord) la cocaina rimane al primo posto, spesso insieme all’alcol e bdz, purtroppo, nonostante i nostri appelli, ci sono ancora medici compiacenti che continuano a prescrivere psicofarmaci senza controllo. A fronte di questo la strategia del PCA non può che essere la riduzione del danno, informazione e la prevenzione. Per quanto riguarda le attività sociali, nella fattispecie svolti la mattina. Sono stati analizzati circa 1000 esami per la ricerca di metaboliti, circa 500 colloqui motivazionali, tra cui 50 contatti telefonici, va anche detto che per continuare queste pratiche ci vogliono risorse economiche, che sempre più nel tempo si sono assottigliate. Va ricordato che per far aderire un utente ad un programma non è cosa semplice, in particolare quando si tratta di cocaina. Vale la pena ricordare il progetto “Mangi chi ha fame” attualmente con sede abusiva al mercato coperto, che nel corso dell’anno ha distribuito numerosi pacchi spesa, in collaborazione con Utenti e cittadini comuni. Inoltre nel corso dell’anno è stato allestito presso il mercato coperto una distribuzione di abiti usati.

Presso la nostra sede sono a disposizione preservativi (in collaborazione con Anlaids) e siringhe nuove, ne abbiamo distribuite circa 100.

Quest’anno abbiamo affrontato anche il tema della Ludopatia, purtroppo le presenze allo sportello sono state veramente poche e difficili, anche perché la dipendenza dal gioco non è ancora vissuta come un problema.

Sul piano politico, a livello nazionale è sparita la conferenza nazionale sulle tossicodipendenze, la quale metteva a confronto tutti gli operatori del settore. In Italia manca, una struttura di allerta sostanze, che in caso di overdose, si possa analizzare la sostanza trovata per ricercare eventuali tagli mortali.

A livello locale invece la situazione è rimasta invariata, la nuova amministrazione che si è insediata per adesso non ha dato seguito al suo programma di mandato rispetto alla dipendenze.

Il PCA versa sempre in una situazione finanziaria precaria, ma anche strutturale, fu proprio il vice Sindaco  Elisa Bartoli che all’indomani di una sua visita ebbe a dichiarare che la sede non è adatta.
La ASL nonostante da un anno ha annunciato una manifestazione di interesse per questo servizio, va avanti a forza di proroghe con le stesse condizioni economiche che per il servizio non bastano, tanto che aspettiamo il finanziamento dalla regione che tarda ad arrivare.
si rischia l’implosione (ndr)

Tuttavia rimaniamo fiduciosi che la situazione si risolva quanto prima, cogliamo l’occasione per fare gli auguri all’amministrazione comunale .

http://www.sims.it

servizio di rete Versilia 

Tormentone tossico

altro giro altra corsa;
riparte il nostro tormentone, stavolta tocca alla Valentina Torri psicologa presso l PCA, evidentemente aveva  piu’ energie.
Insomma,  una mamma grida al mondo che è in atto una corsa contro il tempo per salvare questa figlia e nessuno, dico nessuno, ha speso una parola, in particolare la politica si gira dall’altra parte, come se l’appello fatto dalla Mamma fosse rivolto al PCA o chissà a quale entità.
Dico, ma non vi vergognate, oltretutto e bene che si sappia che questo non ‘è un caso isolato sia chiaro, così come deve essere chiaro che la bacchetta magica non esiste, ma rimane il fatto che tocca alla politica dare delle risposte.
La signora in questione che ho contattato personalmente ha raccontato una serie di aneddoti allucinanti, si è scontrata con la burocrazia che spesso diventa un ostacolo insormontabile anche per chi vuole curarsi.
Stiamo vivendo una nuova fase per quanto riguarda le dipendenze, i servizi si devono attrezzare è stare al passo con i tempi, non è possibile che il crimine sia più avanti. Abbiamo bisogno di un sostegno per le  famiglie, strutture dove almeno la fase più acuta della malattia si possa contenere.
Pochi giorni fa un incontro alla ASL con la presenza di tutti i Sindaci, abbiamo Urlato in quella stessa sede dove hanno tagliato un servizio con la complicità della politica, che se le cose non cambiano verranno sommersi dalle dipendenze, in particolare cocaina e Alcol,  ci troveremo ad affrontare problemi di ordine pubblico importanti.
Anche se per onestà va detto che il Serd di Viareggio lavora abbastanza bene, ovviamente con le risorse che hanno economiche e di personale.
Inoltre il pronto soccorso dovrebbe attrezzarsi con un reparto di emergenza per queste persone che con il tempo hanno sviluppato importanti malattie psichiatriche, spesso accade che i ricoveri sono veramente di fortuna, poche ore è il soggetto viene rimesso in strada con gravi difficolta per le famiglie.
La SDS è chiusa, la palla torna alla conferenza dei sindaci, che hanno recepito il grido dall’arme dei cittadini.
In materia di Sanità. 15 milioni di euro saranno tagliati per l’area nord ovest per aggiustare i bilanci, chi pagherà?
Stamani, mi raccontava una ragazza che ricoverata passando dal PS, nonostante fosse in una situazione grave,  paralizzata, gli veniva detto che la RS non poteva farla perchè la causa di tutto non era dovuta da una caduta, risultato a pagamento.
Aggiungiamo che i cittadini pagano le tasse e pretendono servizi, invece la strategia è nella privatizzazione, forse le nuove generazioni non avranno assistenza sanitaria se non quella a pagamento.
Invitiamo i cittadini ad unirsi ai comitati cittadini per informare, agitare e propagandare.

Insomma una comunità sana è sicuramente un buon investimento per il futuro.

Sanità e tossicodipendenza: uno sguardo al passato.

Lo svolgimento del programma terapeutico dei tossicodipendenti negli anni 80 era garantito dall’USL tramite il G.O.T. che operava attenendosi a leggi, regolamenti, circolari statali e regionali con lo scopo di uniformare le modalità di erogazione delle prestazioni in tutti i presidi territoriali che si occupavano di tossicodipendenza. Per ogni periodo doveva essere fissato dalla USL (consultando GOT e operatori dei vari presidi) un numero massimo di utenti in trattamento, sulla base delle risorse presenti al momento; era stabilito un tetto massimo di numero di utenti da trattare e la somministrazione delle terapie erano effettuate presso i presidi ospedalieri da due infermieri in orari prestabiliti: un’ora la mattina presto ( a richiesta da valutare)  e due ore nel tardo pomeriggio (tutti i giorni compresi i festivi).

Il GOT stabiliva programmi terapeutici individuali; tali programmi , uguali per ogni presidio, venivano sottoposti a verifica periodica ed ogni qualvolta si presentava la necessità di modificare il programma, ciò poteva avvenire alla luce della documentazione del singolo caso: ogni modifica doveva esser registrata su una cartella clinica e approvata di volta in volta dal GOT stesso.

Il servizio si avvaleva della collaborazione del volontariato, nell’ambito delle rispettive competenze ed in ottemperanza alle vigenti disposizioni legislative.

L’ accertamento dello stato di tossicodipendenza era indispensabile per poter accedere al trattamento. Il trattamento metadonico era praticabile solo in casi di tossicodipendenza stabilizzata da oppiacei; ma l’anamnesi e la presenza di oppiacei nelle urine non erano considerati dati sufficienti per fare diagnosi di tossicodipendenza stabilizzata: per ogni ammissione (o riammissione) era necessario ricorrere al test del Naloxone (protocollo in uso presso servizio autonomo di tossicologia di Firenze) o ad un periodo di osservazione clinica di almeno 24 ore da attuarsi presso uno degli ospedali del territorio. Nessun trattamento analgesico-narcotico (metadone) poteva essere intrapreso senza gli accertamenti previsti e al di fuori di un programma terapeutico globale che non si limitasse al solo intervento farmacologico. Non erano ammesse variazioni di terapia al di fuori del programma concordato senza aver ridiscusso il caso in equipe: in particolare gli addetti alla somministrazione non potevano assolutamente prendere decisioni autonome. L’assunzione del metadone doveva avvenire di fronte all’operatore il quale doveva ben accertarsi che non vi fossero manipolazioni dal parte del paziente. Nei casi in cui il GOT riteneva necessario e opportuno coinvolgere un medico esterno, questi doveva essere di norma il medico curante. Tale medico doveva partecipare alla stesura del programma e mantenere con il servizio gli opportuni contatti per controlli e verifiche.

Quando possibile ( e obbligatoriamente in caso di minori) poteva essere individuata una persona di famiglia che partecipasse al processo terapeutico. In caso di malattia, documentata con certificato medico, la persona referente era autorizzata al ritiro del farmaco se considerato idoneo a garantire corretta somministrazione del farmaco a domicilio.

La positività delle urine agli oppiacei comportava una serie di ammonimenti e in caso di recidiva la sospensione del trattamento; e in ogni caso la positività non comportava aumento di dosaggio. Il paziente doveva rilasciare il campione di urina a richiesta del medico e dell’operatore: in caso di rifiuto o palese tentativo di manipolazione questi venivano annotati nella cartella clinica. Il test mancato era considerato positivo alle sostanze.

Prima di essere ammesso al programma terapeutico il soggetto dipendente doveva dimostrare volontà e accettazione incondizionata dei regolamenti del centro impegnandosi a mantenere una condotta corretta verso gli operatori ed altri utenti. Dopo un primo colloquio di orientamento ed un periodo di adattamento il paziente poteva sottoscrivere il “contratto terapeutico”. Il profilo psicosociale del paziente deve essere reindagato e annotato inizialmente ogni 3 mesi durante il primo anno di trattamento ed ogni sei mesi negli anni successivi.

Un paziente, per poter essere ammesso al programma di stabilizzazione con metadone deve avere più di 18 anni ed una storia di almeno 2 anni di uso massiccio e costante di consumo di sostanza (nel caso di minori era necessaria autorizzazione di genitori o di chi ne fa le veci)

Nei limiti della disponibilità del servizio potevano essere trattati utenti inviati da altri centri purché muniti di programma terapeutico e copia degli accertamenti eseguiti (con congruo preavviso del centro inviante); non erano possibili trattamenti “una tantum” a base di metadone: in caso di manifesta astinenza il soggetto poteva scegliere di chiedere aiuto al Pronto Soccorso più  vicino (che valutava l’eventuale trattamento solo dopo accertamenti e prassi prevista).

Questo articolo vuole fungere da piccola memoria storica su quello che voleva dire lavorare in un servizio per le dipendenze o esserne paziente. Spesso i diritti acquisiti nel tempo (frutto di battaglie che alcune persone, credendo nel diritto alla cura degli individui, hanno intrapreso) vengono dati per scontati e non si da loro l’importanza che  hanno. Questo articolo in tale momento storico di forte crisi e smantellamento della sanità pubblica,  vuole essere anche di riflessione e monito perchè spesso il passato ritorna se i cittadini smettono di combattere e vigilare su quanto di prezioso è stato conquistato.

Valentina Torri (Psicologa c/o PCA)

Cannabis terapeutica approvata alla Camera. E ora?

Approvato dall’aula della Camera il cosiddetto stralcio “Miotto” sulla cannabis terapeutica. Bocciati nelle votazioni scrutinio segreto di ieri solo per una decina di voti gli emendamenti che legalizzavano la coltivazione ad uso personale per fini terapeutici.

Dopo un dibattito davvero deludente che ha dimostrato l’arretratezza di questo Parlamento rispetto al Paese è stato approvato dalla Camera la legge sulla cannabis terapeutica. Il voto finale ha garantito al provvedimento rinominato “Disposizioni concernenti la coltivazione e la somministrazione della cannabis a uso medico” 317 voti a favore 40 contrari e 13 astenuti. Si sono espressi a favore del testo la gran parte dei gruppi parlamentari. Anche i gruppi che hanno fortemente criticato la scelta del Partito Democratico di stralciare la regolamentazione legale dell’uso ricreativo della cannabis, in particolare Sinistra italiana-Possibile, MDP e M5S, hanno votato a favore, garantendo il supporto al provvedimento anche al Senato.

Il testo unificato proposto dalla relatrice Miotto ha stralciato praticamente tutto dal precedente progetto di legge dell’intergruppo parlamentare per la cannabis legale, limitandosi ad intervenire sull’uso terapeutico. Per essere benevoli, pare un semplice riordino della realtà attuale per il quale probabilmente erano sufficienti provvedimenti ministeriali. Resta comunque da sottolineare come la maggioranza assoluta della Camera si sia espressa a favore ad una legge che promuove l’uso medico della cannabis. E che il risultato della votazione a scrutinio segreto sugli emendamenti per la depenalizzazione della coltivazione personale ad uso terapeutico dimostra che probabilmente una maggioranza su un testo più avanzato si sarebbe potuta trovare.

Ora il testo, come detto deludente nei contenuti, passerà al Senato. Visti i precedenti di questa legislatura da Palazzo Madama non non ci si può certo aspettare grandi sorprese, se non il definitivo affossamento del provvedimento. Ma con la garanzia dell’appoggio di metà opposizione ad un testo debole ma che rappresenta un passo in avanti, la maggioranza non ha certamente più alibi.

 

approfondimenti

Manipolatori affettivi e le Dipendenze affettive

a cura di Alberti Francesca – Psicologa

Venerdi pomeriggio a Pietrasanta si è svolto il seminario i Manipolatori affettivi e le Dipendenze affettive a cura della Fondazione Tanghetti & Chiari Onlus con il patrocinio della Banca Versilia Lunigiana e Garfagnana . Un evento sold out grazie soprattutto alla partecipazione della criminologa Roberta Bruzzone, che insieme alla psicoterapeuta Perli Marika ci ha spiegato le dinamiche psicologiche che si sviluppano nelle dipendenze affettive, insegnandoci come riconoscerle in tempo e come aiutare chi si trova ormai invischiato in una relazione malata e disfunzionale.

La Dipendenza Affettiva è una forma patologica di amore caratterizzata da assenza cronica di reciprocità nella vita affettiva, in cui l’individuo “donatore d’amore” a senso unico, vede nel legame con l’altra persona, spesso con caratteri narcisistici, l’unico scopo della propria esistenza e il riempimento dei propri vuoti affettivi ed è consapevolmente incapace di rompere la relazione tossica. Come tutte le dipendenze anche quella emotiva può instaurarsi nella vita delle persone anche quelle più forti, magari in un momento di vulnerabilità causato da cambiamenti lavorativi o familiari. Il carnefice solitamente è affetto da un disturbo Narcisistico di personalità, che sa scegliere con cura le sue vittime, perché ha bisogno di colmare quella parte di sè vuota e fragile. Sarà sempre alla ricerca  di ammirazione e gratificazione dall’altro manipolandolo con ogni mezzo, inizierà la sua danza narcisistica fra comportamenti positivi (ottimo corteggiatore , amante premuroso, romantico e galante) e comportamenti negativi ( aggressivo,  geloso patologico, non risponde e chiama quando vuole, gelido, incostante e confuso).

La vittima inizierà così  ad indossare il guinzaglio emotivo e a diventare dipendente attribuendosi le colpe per gli atteggiamenti malati del partner, annullando la propria vita adattandola completamente per soddisfare i bisogni dell’altro, che  privo di empatia e con sadismo eserciterà sempre di più il suo potere. Il Narcisista infligge dolore, la vittima entra nel vortice della dipendenza soffrendo, gratificando e aumentando il suo senso di grandezza. Ci sono importanti segnali di allarme da non sottovalutare, la vittima perde l’ autostima, si sente inadatta, idealizza l’immagine del partner accentuando i pochi tratti positivi e minimizzando quelli negativi, si concentra solo sui propri errori e si isola sempre di più, allontanandosi soprattutto da quelle persone che iniziano a fargli notare che qualcosa non va.

Nell’innamoramento sano si sviluppano  solitamente tre aspetti dove il cervello secerne i rispettivi ormoni: amore romantico (dopamina, norepinefrina e serotonina) , attaccamento ( ossitocina, vasopressina), desiderio sessuale (estrogeni endogeni e endorfine). Nella relazione malata con la sua macabra danza idealizzazione-svalutazione-abbandono portano ad un crollo improvviso della produzione di questi ormoni con tutti i sintomi tipici dell’astinenza : agitazione, ansia generalizzata, disturbi del sonno, confusione, depressione, pensieri ossessivi e emozioni sempre in balia dell’oggetto d’amore con utilizzo compulsivo  dei social e del cellulare. La vittima vive nel terrore di essere abbandonata e inizia come per tutte le dipendenze la discesa agli inferi, passata la prima fase detta della luna di miele comincerà a rendersi conto di essere entrata in una relazione malsana che le causa  un forte stato di malessere, sente il bisogno di voler chiudere quella relazione ma si rende conto di essere  incapace di non poter riuscirvi da sola. In questa fase è importante chiedere aiuto al terapeuta che vi insegnerà  a prendere sempre più consapevolezza dei danni che quel tipo di relazione stanno arrecando  creando ferite che col passare del tempo sono sempre più difficili da curare.

Ripartire da voi stessi, riconoscere di aver un problema è il primo passo per affrontarlo. Amare e rispettare se stessi, disdire l’abbonamento alla convinzione di essere fragili e di valere in funzione del partner. Non si sceglie di avere una persona accanto per peggiorare la propria vita, ma per migliorarla, e se l’amore non porta a questo o non è amore o è un amore malato.

Mettiamoci in gioco

ieri sera presso il Chiostro di S Agostino di Pietrasanta si è svolta una serata dedicata al gioco d’azzardo patologico, organizzata dalla ASL 12. Dopo i saluti dell’ormai  l’ex assessore Lora Santini. nel corso della  serata hanno partecipato una 50 di persone, quasi tutti addetti ai lavori. Rileviamo che benchè i medici di famiglia fossero stati invitati, hanno preferito disertare la serata. Gli interventi della serata sono stati tutti interessanti, il Dott. Intaschi si è soffermato sulla parte piu scientifica della patologia,  ricordando che il gioco d’azzardo patologico è stato inserito nel nuovo DSM 5,Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, la bibbia degli psichiatri e di come questa patologia possa cambiare il cervello, soffermandosi su quali sono le aree interessate.

Cio’ che ha colpito di piu’ è stato l’intervento di Don Armando Zappolini che credo possa essere considerato un vero esperto del settore, da anni si batte per regolamentare il gioco d’azzardo, con la campagna  Mettiamoci in gioco. Don Armando ha posto l’accento sugli interessi che si celano dietro il gioco d’azzardo, e su come questa dipendenza ricade anche in termini di costi sulla sanità pubblica.
Molto interessanti alcuni interventi degli alcolisti anonimi con qualche testimonianza diretta. L’associazione Libera. Anche il PCA ha fatto la sua parte, in particolare sull’organizzazione della serata. Valentina Torri Psicologa,  una delle responsabili del nuovo sportello Pietrasantino ha parlato del progetto, che ricordiamo è stato finanziato dalla Credito Cooperativo della Versilia e Comune di Pietrasanta. A breve lo sportello d’ascolto dovrebbe partire grazie anche ad uno stage finanziato dalla banca e Comune di Pietrasanta, sarà la neo laureata Alberti Francesca che si prenderà cura degli eventuali utenti.
Nel corso della serata è stato ricordato ai presenti la difficile e contraddittoria situazione del PCA, dove da una parte ci chiedono di fare prevenzione dall’altra manca l’attenzione finanziaria.
infine volevo aggiungere qualche mio pensiero. Premesso quanto sopra mi pare di capire che la ludopatia rientra a pieno titolo nelle dipendenze, ultimamente ho notato che c’è un attenzione morbosa su questa tematica, facendo passare quasi in secondo piano le altre dipendenze, inoltre mi pare che sono stati stanziati dei fondi apposta per combattere questa malattia; mi chiedo, perché non lo hanno fatto anche per le sostanze psicoattive dei fondi apposta? Non vorrei che questa attenzione è dovuta all’accaparramento di questi fondi.  Se ho capito bene, mi pare che il finanziamento promesso al PCA dalla Regione , venisse  in soccorso attingendo proprio da questi fondi, bloccati poi dalla codacons (vedi articolo).
Come associazione DDT, chiediamo ai vertici del Gruppo SIMS in particolare al Presidente Luca Bonci, di porre fine a questa pantomima a queste promesse fatte dal Dott. Fabio Michelotti (EX Direttore SDS)Direttore Maurizio Varese. SETTORE DIPARTIMENTALE DELLE DIPENDENZE  ad oggi non mantenute, pertanto riteniamo che sia giunto il momento di vedere quando il PCA sia necessario per il nostro territorio, la nostra proposta è di fissare una data, fine ottobre, per sospendere il servizio.
Tuttavia,  una serata interessante dal punto di vista formativo, inutile dire che mancavano i protagonisti, i cittadini, gli esercenti le famiglie, questo credo sia una criticità. Molto spesso si sottovalutano questi problemi e quando si interviene di solito è troppo tardi.
alle prossime.

Binario zero, fine corsa

quando uno dei nostri Utenti viene a mancare tragicamente ci chiediamo sempre se potevamo fare di più. Situazioni che abbiamo già vissuto in passato e che ci hanno segnato. Utenti che avevano intrapreso anche se con fatica, un percorso di riabilitazione, farmacologico e di sostegno psicologico si sono arresi.
Purtroppo,  in particolare con i tossicodipendenti le criticità sono tante, alcuni malesseri vengono da lontano e con il tempo  diventano sempre più acuti. Dalla nostra esperienza abbiamo  rilevato che molto spesso questi disagi vengono dalle famiglie, mi riferisco alle dinamiche padre figlio sorella fratello piuttosto che moglie e fidanzata è in questi casi che l’intervento è più’ complesso, in particolare quando troviamo delle resistenze o collusioni nelle famiglie ed è qui che la figura del Counselig e dello psicologo è importante, in sinergia con il medico che lo segue. Questo percorso può diventare tortuoso quando nel paziente non c’è la consapevolezza della malattia che sta attraversando è spesso si scelgono le vie più facili con sicure ricadute che rafforzano sempre più lo stato di malessere. In altre occasioni ci siamo trovati a dei grossi salti di generazioni tra utente e genitori, in questo caso l’intervento si fa piu’ difficile in quanto per molti genitori di età avanzata l’uso delle sostanze è pressoché sconosciuto. Al PCA abbiamo vissuto la stagione delle emergenze critiche, dove il farmaco era indispensabile per agganciare le persone, oggi invece con la crisi della Sanità pubblica e i conseguenti tagli verticali, stiamo attraversando un momento di grande confusione. Risolto per così dire la parte farmacologica rimane l’atro pezzo del puzzle, il reinserimento, la possibilità di ricominciare, l’occasione del riscatto per sentirsi utile sulla terra, ecco questo manca, come manca l’attenzione. Possono fare tutti i tagli che vogliono, possono sopprimere tutte le strutture che credono, ma sarà un cane che si mangia la coda, i nodi verranno al pettine è saranno piu’ dispendiosi da sciogliere. Pertanto abbiamo il dovere civico di denunciare questi disagi di informare i cittadini di cosa accade nella nostra città, in particolare  nelle famiglie. Ci sono situazioni al limite del surreale, dove le istituzioni sono completamente sorde, salvo poi gridare “la sicurezza” Infine, l’ipocrisia che spesso è insita nell’essere umano, viviamo in un momento dove non sappiamo cosa succede al nostro vicino di casa, ne prendiamo coscienza solo se arriva la polizia o un carro funebre, “dio mi lo conoscevo” ” ma la famiglia?” ” ma nessuno che gli dava una mano?” insomma il campionato dell’ipocrisia.
La soluzione come sempre passa alla politica, solo la politica puo’ dare attenzione agli ultimi se sarà capace di toglierla un po’ ai primi.

I sensi di colpa nei programmi terapeutici delle comunità di recupero

Prof. Cristiano Castelfranchi

a cura di Davide Toschi
Gli eventi per cui ci assumiamo una responsabilità possono essere da noi causati intenzionalmente o anche inintenzionalmente. Ciò che è necessario però sia presente è la credenza che noi siamo stati capaci di farlo, quindi di essere stati nella condizione di potere essere determinanti nella realizzazione del fatto e, indispensabile è che ci sia, più o meno consapevolmente, la credenza che, così come si è stati capaci di farlo, ci fosse stata la stessa capacità di evitarlo. Questo, curiosamente si verifica anche per quel che concerne eventi, accadimenti, fatti del tutto casuali. Che ci si senta responsabili di qualcosa (ad esempio se scivolando in un negozio si è causata la rottura di un oggetto che stavamo osservando), di cui non si avrebbero responsabilità oggettive, quan-tomeno non di natura intenzionale è spiegabile con l’aver comunque causato un danno a qualcuno: nella fattispecie si è compromesso lo scopo del commerciante di vendere il tale oggetto. Pur avendo agito inconsapevolmente nella determinazione del risultato, ci si sente responsabili (colpevoli?) per quello che è accaduto. E’ innegabile infatti, che pur nella totale involontarietà del gesto, il risultato di compro-missione dello scopo del negoziante non sarebbe venuto a verificarsi, se quello stesso giorno ci fossimo per esempio recati in gita in un’altra città evitando così di poterci trovare lì nel momento dello “scivolamento”. Si trovano quindi sempre dei motivi per cui ci si possono attribuire delle responsabilità e quindi delle colpe, anche riguardo fatti nei quali la nostra volontà non è stata minimamente influente. Non che ci sia rapporto diretto tra responsabilità e colpa: nel senso che ci si può sentire responsabili di qualcosa, pur senza necessariamente crearcene un senso di colpa. Ma in proposito dell’attribuzione del tutto scissa dalla presenza di responsabilità, sia pur minime, infinitesimali o cabalistiche che si vogliano considerare, si consideri l’efficace esempio di Castelfranchi circa il paziente dimesso sano dopo gli accertamenti clinici svolti contemporaneamente ad uno sconosciuto vicino di camera che ha invece dei risultati compromettenti il suo stato di salute: ebbene anche in questi casi Castelfranchi sostiene che si possano produrre nel paziente sano (ovviamente) dei sensi di colpa. A suffragio di quest’ipotesi, che va quindi contro una serie di affermazioni precedenti che portavano a ritenere indispensabile la presenza di alcuni fattori, quali la responsabilità nella determinazione di una compromissione di scopo dell’altro, Castelfranchi basa la propria convinzione introducendo un nuovo paradigma d’indagine: il principio di equità. Da qui, la compromissione di questo senso di equità, che è per altro fattore individuato come biologico nella natura umana e base indispensabile per la considerazione del processo di determinazione dell’altruismo, determinerebbe il senso di colpa solo sul presupposto di disequilibrio. Un paradigma etico, quindi: partendo dalla considerazione egualitaria si introduce un meccanismo di auto-colpevolizzazione nel momento in cui ci si trova a contatto con una realtà che non soddisfa il nostro innato (quindi biologicamente determinato) senso di equità. Trovo insoddisfacente, la teoria secondo la quale si potrebbe rintracciare la causa prima di questo senso di colpa nella teoria probabilistica che si rifà ad una responsabilità che l’individuo fortunato si riconosce per avere con la propria fortuna determinato una minor probabilità di fortuna negli altri soggetti del mondo. Mi adagio quindi sulla ipotesi che il principio di equità abbia nella sua stessa formulazione (soprattutto nelle caratteristiche biologiche) le dimostrazioni della sua veridicità. Le premesse Da una lunga osservazione e personale conoscenza di soggetti che hanno sperimentato su loro stessi pragrammi terapeutici; da un contatto ed un interesse con il mondo delle tossicodipendenze e delle devianze in genere; da una frequentazione ed impegno in diverse ipotesi di aiuto (condivisione?) ai problemi più macroscopici delle più visibili forme di de-vianza; da un diretta esperienza in uno dei centri di accoglienza della prin-cipale struttura di recupero del centro Italia; dalla collaborazione con associazioni e riviste specializzate (Senzamargine del Ce.I.S., PCA News del SIMS, In Prima Persona, Fuoriluogo, Forum droghe, ecc.), infine, dall’avvicinamento ad una possibilità di approccio – leggi psicolgia cognitiva – nuova per il mio orizzonte cognitivo (appunto!), nasce l’idea di questo breve con-fonto con la materia e con le sue possibilità di indagine in questo campo così, per me , interessante. Non vorrei qui addentrarmi nel difficile ruolo di definire quali e se ci sono forme efficaci nella cura delle malattie sociali – quali le varie dipendenze e gli abusi di sostanze, nonché una vasta area di malattie comportamentali socialmente e psichicamente determinate – anche se è di questo, generalmente che le cosiddette comunità terapeutiche si occupano. A me interessa indagare, ovviamente nella consapevolezza dei miei ristrettissimi limiti, sulle nuove vie che l’approccio con la psicologia cognitiva mi ha indicato. Utilizzare quindi la materia per dare maggior chiarezza ad una nutrita serie di elementi che scaturiscono dall’osservazione dei modelli terapeutici proposti dalle comunità. Va detto anche che, essendo sul mio territorio presenti comunità che fanno dell’approccio comportamentale la base e lo strumento principale del loro lavoro terapeutico, forse questo mi ha aiutato a convincermi della possibilità che la psicologia cognitiva potesse fornirmi nuovi ed utili strumenti di lettura. Per non perdermi però nella sterminatezza di questi argomenti e nelle innumerevoli possibilità di approccio con il problema, restringerò il campo cercando di applicare un pò delle nuove pos-sibilità interpretative a uno o due modelli terapeutici che meglio conosco. I due modelli paradigma Due, diversissimi tra loro, sono i modelli che intendo prendere a riferimento in queste brevi considerazioni. Il Ce.I.S. Centro Italiano di Solidarietà è un istituto fondato da un religioso: don Bruno Frediani. Centro importante, come dimensioni e come referenti politico istituzionali, ha le sue sedi sparse un pò per tutta la penisola. Originariamente fondato su una ipotesi di lavoro denominata “progetto uomo” che proveniva diretta-mente da una serie di osservazioni e studi che don Bruno, assieme ad un altro conosciuto prete dedito al volontariato: don Mario Picchi, avevano tratto da frequenti viaggi negli Stati Uniti dove prendevano a riferimento gli sviluppi dei primi centri di disintossicazione da oppiacei creati e sviluppati per i reduci della guerra del Vietnam. Si era agli esordi dell’approccio medico – terapeutico. Ai pochi farmaci disponibili veni-vano affiancati dei programmi di destrutturazione e ricostruzione degli indi-vidui che hanno lasciato pessime tracce nelle comunità che tuttora fanno riferimento ad approcci di tipo comportamentale. Da pochi anni, “progetto uomo”, un programma che peraltro partiva dall’assunto di essere proponibile a tutti indistintamente e da tutta una serie di interventi mirati a “ricostruire” una nuova persona dal cadavere dell’uomo che entrava a far parte del programma, è stato definitivamente abbandonato da don Bruno Frediani. Il quale, si è autoescluso dal Ce.I.S. organismo nazionale, creandosi un suo ambito di lavoro in alcune delle strutture Ce.I.S. presenti sul territorio prevalentemente lucchese. Dalle cinque o sei strutture di riferimento è quindi partito un nuovo progetto che mira a co-struire intorno all’individualità del singolo (quindi rispettandone le soggetti-vità culturali, caratteriali e, quindi, comportamentali) un personale progetto di (……….?). Di cosa, non mi è ancora dato capire.

Il Progetto Comunità Aperta, nasce invece a Pietrasanta – siamo ancora nella provincia di Lucca, ma questa volta nel cuore della Versilia storica . una quindicina di anni fa, grazie all’impegno ed alla cocciutaggine di tal Roberto Nardini.

Da allora il S.I.M.S. (Studio e Interventi sulle Malattie Sociali) che sorregge il progetto, si è impegnato a realizzare una serie di interventi sul territorio e in tutto l’ambito nazionale, che parte dal concetto di Riduzione del Danno (RD da qui in avanti), per proseguire sulla strada di una laica considerazione della realtà oggettiva, che mai ed in nessun modo andasse ad interferire con quello che è il rispet-to del singolo individuo. Offrire quindi a chi ne avesse bisogno il conforto di un centro, di persone attrezzate (culturalmente, scientificamente e organizzativamente) che potessero offrire un aiuto nel con-tingente e nella realizzazione di eventuali progetti futuri. Il PCA, non è quindi una comunità nel senso comune del termine, è un progetto di sostegno a chi ha reale necessità di aiuto, senza distinzione di intenti, senza distinzioni etiche, morali. Saltano certo agli occhi alcune grandi differenze tra le due realtà: la prima che esiste per redimere, per riportare sulla giusta strada coloro che sbagliano. E che deve quindi basarsi sul presupposto di giustezza delle proprie ipotesi, prima di tutto etico-morali, e sulla fondamentale decisione del soggetto di interrompere la sua pratica d’uso (o d’abuso, o di dipendenza) dalla/e sostanza/e. Il PCA, che parte da una logica totalmente differente e che può anche sbagliare nell’impostazione astratta, etica della cura, ma che ha certo un comportamento di pieno rispetto per le scelte dell’individuo: qualunque esse siano. Base di partenza teorico-pratica è la convinzione che il tossicodipendente sia un soggetto malato e che quindi necessiti di tutte le cure disponibili. Il fatto di considerare la tossicodipendenza come una malattia del corpo anziché, come fanno i precedenti, una malattia della mente, non viene da assunti in astratto: nel 1994, dopo anni di studi, l’OMS (l’Organizzazione Mondiale della Sanità) ha compreso le tossicodipendenze tra le malattie pienamente riconosciute.

Il PCA propone quindi una serie di interventi, primo tra i quali la terapia di mantenimento metadonico, finalizzati a permettere all’individuo – solitamente spossato dalla quotidiana pratica della droga di strada – di ricostruirsi fisicamente e psicologicamente, offrendogli quindi l’alternativa del sostituto farmacologico. Sostituto che non può essere denominato in nessun caso droga di stato, a meno che non si voglia comprendere in questa definizione anche una serie di droghe legali – dagli psicofarmaci, all’alcool ecc. – e, last but not least, l’eroina stessa (che in moltissimi casi è stata promossa dallo stesso Stato. – Anche senza andare in polemici discorsi quali quelli sulla funzione positiva dell’eroina in certi momenti storici, gli Stati Uniti in Vietnam, per esempio, ne hanno fatto un uso “legale” ed indiscriminato, ormai accertato!). Il metadone ha origine come sostituto di laboratorio dei morfinacei e venne scoperto dai chimici hitleriani negli anni della guerra mondiale, momento in cui gli alleati aveva-no impedito ai nazisti l’approvvigio-namento agli antidolorifici – leggi derivati della morfina – ed ha dimostrato e continua a dimostrare i maggiori successi negli interventi sulle tossicodipendenze . La psicologia cognitiva nei processi di destrutturazione scientificamente programmata: L’appartenenza al gruppo. E’ partendo dalle considerazioni di Rupert Brown sulle modificazioni del concetto di sé che mi sento di iniziare ad utilizzare la psicologia cognitiva per indagare meglio alcuni meccanismi propri dei processi di destrutturazione attuati nelle terapie di tipo comportamentale. Dice Rupert Brown: «(…)Una delle prime conseguenze del divenire membri di un gruppo è un cambiamento nel modo in cui vediamo noi stessi. L’inserimento in un gruppo richiede spesso da parte nostra una ridefinizione di ciò che siamo, la quale, a sua volta, può avere delle impli-cazioni per la nostra autostima. (…)» Si introduce qui uno dei requisiti essenziali per il funzionamento della destrutturazione sull’individuo. Ogni comunità di tipo comportamentale, prevede la permanenza nelle proprie strutture, con il necessario adeguamento del soggetto in trattamento alle regole ed agli impegni della comunità (gruppo) che lo accoglie. Delle regole e degli impegni ne diremo in seguito, ma qui già possiamo affermare che ciò che Brown sostiene circa il processo di riconsiderazione della propria autostima è caratteristica essenziale per essere accettati (poter far parte?) del gruppo. E su questo, in relazione a questo, sono molti gli interventi che si possono fare e si fanno. Per esempio è condizione necessaria, affinché si riconosca l’autorità degli educatori, ridefinire la propria autostima ad un livello nettamente inferiore alla stima ed alla valutazione degli stessi. Un’altra considerazione che si può fare con Brown è che l’aderenza ad un gruppo ne determina anche l’accettazione delle caratteristiche. A questo proposito mi sembra importante sottolineare la frequenza con la quale un individuo tossicodipendente (nel momento stesso della sua dipendenza, paradossalmente lo è meno in momenti diversi, o successivi) si estranea dalle definizioni proprie del suo gruppo di appartenenza. Si pensi per esempio a quante volte si sente dire: «Ma io sono diverso, (…) Non sono proprio “tossico”.» E, anche se può apparire strano, la sola accettazione di appartenenza al gruppo in cui le comunità lo comprendono è di per sé forte riduzione della propria autostima: primo, perché in ogni caso implica la rinuncia ad una soggettività, poi, perché il gruppo nel quale ti accolgono è sempre un gruppo di basso valore morale (e nel peggiore dei casi, si può essere stati relegati in definizioni assolutamente insuperabili. E’ il modello Muccioli, che considerava i tossico-dipendenti solo come soggetti vita natural durante della propria malattia. Per Muccioli, senior, non aveva ragione di esistere la denominazione di ex-!) C’è una richiesta che immediatamente si fa ad un soggetto che decide di sostenersi ad un programma terapeutico di questo tipo: è quella di affidarsi completamente e senza riserve. Di dare fiducia cieca agli operatori, agli educatori. Questa, ti viene spiegato subito, è condizione essenziale per la buona realizzazione degli obiettivi che il programma si dà. Obiettivi che sono solitamente quelli, non tanto di farti conoscere te stesso per quello che sei, che sei stato e che puoi o potresti essere, ma che sono quelli di uscire di lì conoscendo una nuova persona, che si è pentita rinnegando la precedente ed ha iniziato a considerare un altro se stesso che non conosceva e che dovrà essere, di lì in avanti, il proprio nuovo ego. Come bene si può vedere, anche il fatto di condizionare il risultato del programma a certi comportamenti del soggetto trattato, possono essere territorio di analisi dal punto di vista della psicologia cognitiva (si riscontrano le caratteristiche del senso di colpa con colpa , nel concetto preciso di responsabilità. Ma si deve, e si potrà farlo meglio in seguito, considerare che sempre qui il concetto di responsabilità è legato a comportamenti relativi ai rapporti con la comunità in senso stretto e con quelle che ne sono le proprie ramificazioni.

E’ invece totalmente disatteso, quando si tratta di elementi personali o di responsabilità individuali). Questo dell’affidarsi, è uno scoglio grossissimo per i successi dei trattamenti ed è causa di un numero molto rilevante di rinuncie al proseguo del trattamento. Il programma di cui posso portare testimonianza, come del resto tutti quelli che conosco, pur non per esperienza diretta, prevedono una fase di preparazione al programma vero e proprio, solitamente definito di accoglienza. E’ durante questa fase che si presenta appunto questo primo scoglio dell’affidamento agli operatori che ritengo di poter individuare anche come prima indispensabile tappa del processo di destrutturazione. Il termine destrutturazione (che risale appunto ai primi programmi terapeutici americani) può anche apparire, e secondo me è, piuttosto brutto, ma certo non deve sembrare inadeguato. I presupposti sui quali si poggiano infatti i programmi terapeutici della mag-gior parte delle comunità (ripeto basate sul modello comportamentale) prevedono lo svuotamento del paziente (uso il termine anche se sò che non ne converrebbero) dai contenuti del suo essere. E’ qui che si trovano ancora enormi differenze tra una visione laica-liberista e la visione morale-intransigente di molte di loro. Per me è contenuto dell’essere anche ciò che fa parte del comportamento, ciò che è la prassi quotidiana, ciò che ci rende visibili, manifesti. Con questo non voglio certo negare che ognuno di noi conviva con una serie di contraddizioni che determinate pratiche (nelle sue più svariate forme: dalle terapie psicanalitiche alle sedute spiritiche; dall’autoipnosi alla meditazione trascendentale) siano in grado di aiutarci a superare o, quantomeno, a conviverci. Ma da qui, a liberarsi di tutto per diventare nuovi soggetti scevri da problemi e compromissioni… ce ne corre! E dopo che ci si è affidati, ci si è quindi ridimensionati moralmente al ruolo dei peccatori ante-vitaem, inizia il lungo lavoro di terapia vera e propria. Primo confronto con la terapia è l’accettazione e la condivisione del senso di colpa. Vero principio basilare delle comunità Ce.I.S., il senso di colpa viene progressivamente definito e quotidianizzato nella vita di tutti i soggetti in trattamento. A partire dalle prime settimane, e sempre con maggior insi-stenza, i responsabili del programma invitano i pazienti a comunicare loro e al gruppo di appartenenza (sono dei sottogruppi determinati dagli stessi operatori) i sensi di colpa che quotidianamente li pervadono. Dalle prime volte, nelle quali i foglietti consegnati registrano una predominanza di righe bianche si passa a una sottoscrizione plurigiornaliera di cosiddetti SdC. E nell’accezione di questa, come di altre comunità a base comportamentale, essi comprendono anche la comunicazione di tutti i comportamenti trasgressivi cui si assista o di cui ci giunga notizia (forse sta qui l’origine della legislazione premiale di Dalla Chiesa … !). Ho sentito affermare da operatori stimati e (sic!) qualificati che il SdC trovava una sua naturale giustificazione d’essere nella necessità di rigetto dell’omertà, tanto diffusa tra i tossicodipendenti. Ecco un importante oggetto d’indagine per la psicologia cognitiva! Pur nella necessaria ridefinizione del SdC a qualcosa di preciso (e di comprensibile!) mi interessa vedere quali sono i meccanismi che scaturiscono da questa pratica – che come detto da nulla diventa poi sempre più frequente – quindi indagare su quali siano i motivi che spingono delle persone ad accettare che, per il proprio ed il comune bene, si passi sopra a delle credenze, che per quanto discutibili in contesti del genere – si pensi non all’omertà, ma al semplice principio di farsi i cazzi propri, o del rispetto per la responsabilità altrui, per dirlo meglio – son sempre ben radicati nella cultura e nei principi etici di un individuo normale. E’ chiaro, quindi, che alla base di questi programmi ci siano degli agenti psicologici estremamente forti. Proviamo ad individuarne alcuni oltre a ricercare le motivazioni che sono alla base di questa primaria scelta del SdC come stru-mento privilegiato di controllo da parte della struttura . Primo semplice elemento che osserviamo è il più frequente, almeno inizialmente, SdC comunicato (è terminologia comunitaria. Normalmente, credo, si direbbe confessato): la trasgressione di una regola. Abbiamo visto come la trasgressione comprenda alcuni tipici elementi costitutivi del SdC. Facciamo un semplice esempio: la regola dice che non si possono bere più di tre caffè al giorno. Il cuoco, che ha preparato il caffè per la cena, ha visto avanzare, nella caffettiera, o nel termos dove è stato riposto per essere servito a tavola, un caffè. Avendo egli bevuto già i suoi tre caffè giornalieri permessi, dovrebbe comunicare agli operatori di sentirsi in colpa per averne bevuto un altro (ovviamente, nel caso finisse il caffè avanzato anziché tirarlo via). Si badi bene: NON avrebbe dovuto dire di aver bevuto il caffè, ma avrebbe dovuto comunicare il suo SdC per averlo fatto. Prescindendo dal fatto che il caffè si sarebbe potuto riutilizzare anche il giorno dopo per la colazione (ma allora anche nel caso che si fosse buttato via, sarebbe dovuto sorgere lo stesso SdC, invece, no!), dando quindi per scontato che non si è prodotto alcun danno per chicchessia e che l’insorgere del SdC sarebbe imputabile soltanto al fatto di aver trasgredito una regola, si analizzi il caso. Il cuoco ha bevuto il caffè ormai da buttare (era uno solo, non conveniva metterlo in un tegamino – principio economico sia per il lavoro successivo di risciacquarlo quanto per il costo del detersivo e dell’usura del tegamino…(!)) trasgredendo ad una esplicita regola della vita comunitaria. Perciò egli deve comunicare il SdC che sta provando. Il cuoco può provare o meno questo SdC, resta il fatto che egli sia obbligato a comunicarlo. Se le prime volte egli non lo farà (è un dato statistico, che non lo farà), dopo un certo periodo di permanenza in comunità, egli tenderà ad evitare di bere il caffè (contravvenendo quindi alle regole di economicità che contraddistinguono quasi sempre il nostro agire) ma quando lo facesse (e lo farà, nel suo protrarsi di vita comunitaria, più di una volta) nell’80 ed anche nel 90% dei casi, andrebbe a comunicarlo. O, meglio, andrebbe a comunicare il senso di colpa che gli deriva dall’averlo fatto. E, ancora seguendo questa scansione temporale, ci si accorgerebbe che dapprima egli comunicherebbe un SdC che in realtà non sente, mentre con l’andar del tempo egli comunicherebbe realmente: né più né meno ciò che realmente sente. Si dovrebbe quindi dire che la comunità sta funzionando, in quanto che, l’individuo (il cuoco del nostro esempio) sta assimilando i concetti, le regole della co-munità tanto da farli prevalere sui suoi stessi principi di economicità che, mi pare anche a livello scientifico, vengono spesso rintracciati quali biologici. Forza del convincimento! Dicendo a questo proposito (del convincimento) che non trovo argomenti correlabili nel pur interessante libro di R.Cialdini , e che potrei tutt’al più riferirmi all’interpretazione del senso di equità di Castelfranchi, sospendo questo lavoro di così grande interesse e “passione” con la promessa, a me stesso, di riprenderlo non appena le condizioni di impegni minori me lo permetteranno.

L’ultima parte che segue, è precedente a questa appena letta, e siccome frutto di fatica e, spero anche degna di qualche nota, la lascio. Appendice Cosa siano e quali le terapie, o meglio le diverse pratiche terapeutiche, che compongono un programma di recupero propriamente detto (che, per inciso, solitamente abbraccia un periodo di tempo che va da un anno e mezzo a tre, quattro anni) non è mio interesse dire nel particolare. E’ invece mio proposito quello di andare ad indagarne alcuni che cercherò di colle-gare ai pochi strumenti che la psicologia cognitiva mi ha, finora, messo in grado di usare. Il lavoro di gruppo è cardine dei programmi Ce.I.S.. In questi gruppi (ce ne sono di diverso tipo: da quelli di preparazione a quelli terapeutici veri e propri) si consente ad una serie di soggetti messi insieme dagli operatori di intraprendere un cammino parallelo che li porta ad affrontare, assieme e mano a mano, gli aspetti più contraddetti del loro proprio comportamento. Per fare un esempio si pensi che si fanno durante il programma gruppi di sessualità, di regressione, di violenza, ecc. Questi gruppi, che hanno molto spesso una origine scientifica e terapeutica già dimostrata ed acclamata, hanno però la caratteristica, in questi casi specifici – perché le stesse terapie possono essere condotte anche al di fuori delle comunbità – di essere pratica di persone che vivono tra di loro e con nessun altro che loro, in una condizione protetta, ma aliena alla realtà circostante. Ciò significa, anche, non certo soltanto, che i risultati terapeutici di tali attività, vengono ad esprimersi e, vorrei osare, ad introiettarsi, alla luce di un ambiente, di una situazione che in quanto protetta, non permette loro di risultare con la stessa efficacia indipendentemente dalla situazione contingente. Questo può certo stare anche alla base dei numerosissimi insuccessi di tali programmi di recupero, nonché dell’interessantissimo e poco analizzato fenomeno della “sindrome di dipendenza” da comunità
Bibliografia

J. G. Benjafield: Psicologia dei processi cognitivi, Il Mulino 1995

C. Castelfranchi-R. D’Amico-I. Poggi: Sensi di Colpa, Giunti 1994

R. Cialdini: Le armi della persuasione, Giunti 1991

M. Miceli-C. Castelfranchi: Le difese della mente (i capitoli: 10: Difese dal senso di colpa e 11: Il ruolo dell’autoimmaginazione), NIS 1995

R. Brown: Psicologia sociale dei gruppi. Dinamiche intragruppo e intergruppi (i capp. 1: La realtà dei gruppi, 2: Processi elementari nei gruppi, 6: Pregiudizio e scontento sociale, 8: Categorizzazione sociale, identificazione sociale e relazioni intergruppi.

Don Bruno Frediani: “Progetto Uomo” cicl. in proprio, Lucca 1978

Senzamargine: bimestrale del Cesers Centro Studi e Ricerche Sociali, Bottega della Solidarietà

 

Chiuso il centro clinico di ricerca e di assistenza per tossicodipendenti dell’università i pazienti si sono rivolti tutti a Pietrasanta

da Liberazione 5/01/05

Chiuso il centro clinico di ricerca e di assistenza per tossicodipendenti dell’università i pazienti si sono rivolti tutti a Pietrasanta. Pendolari per vivere

«Il 23 dicembre il professor Cassano, in modo che io non esito a definire criminale, ha chiuso definitivamente il centro di ricerca e di assistenza per tossicodipendenti all’interno dell’università». La denuncia arriva da Roberto Nardini, figura storica del volontariato nel campo delle tossicodipendenze, in prima linea in Versilia dal 1977, presidente del Sims (Studio intervento malattie sociali), associazione che tra ricerca, assistenza diretta e unità di strada, vanta anche un servizio difesa dei diritti dei tossicodipendenti (Ddt). Il centro di ricerca e assistenza chiuso, attivo dal 1994, al quale facevano riferimento 80 utenti per la somministrazione del metadone, era nato proprio dalla collaborazione tra il Dipartimento di neuroscienze dell’università di Pisa e il Sims (www.sims.it).Una struttura comunque dipendente da un unico “deus ex machina”: il professor Giovanni Battista Cassano.

Pazienti senza rete
E’ stato un brutto Natale quello degli utenti seguiti dal servizio universitario per le tossicodipendenze. E l’anno nuovo non promette bene. I pazienti dell’ex centro universitario sono stati indirizzati ai Sert locali di appartenenza, ma nel giro di ventiquattro ore, i più, sono tornati a cercare i medici e gli operatori che da anni li avevano in carico. Anche perché molti dei Sert che avrebbero dovuto farsene carico gli hanno sbattuto la porta in faccia. Ritrovarsi senza la dose giornaliera di metadone, per chi con fatica ha trovato un lavoro e si è rifatto una vita, una famiglia, per chi ha chiuso con un passato da tossico da strada, non è facile. Così spinti dallo spirito di sopravvienza si sono ritrovati tutti a fare la fila la Sert di Pietrasanta, dove prestano servizio medici e operatori del centro universitario chiuso alla vigilia di Natale. «Si è sfiorata la tragedia – racconta Nardini -. Per poco si è potuto evitare l’intervento delle forze dell’ordine. Abbiano comunque affrontato l’emergenza. Ma ora c’è il caos». I servizi della Asl non hanno risorse sufficienti. «E nemmeno noi ce l’abbiamo. Non si riesce nemmeno a risolvere il problema della produzione adeguata del farmaco necessario. I costi invece di essere supportati dalle Asl gravano tutti su di noi» tuona ancora il presidente del Sims.